Non in mio nome: live report del concerto contro il genocidio in Palestina

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“Se leggete queste parole, vuol dire che sono morto”
Così scriveva nel suo ultimo post Hossam Shabat, 22 anni, giornalista palestinese colpito da un drone mentre viaggiava a bordo di un’auto con ben evidenti le insegne di Al Jazeera. Un attacco mirato, quindi, mirato a mettere a tacere quella che veniva definita l’ultima voce del nord della striscia.
Il suo numero di registro, nell’elenco dei giornalisti uccisi dall’Esercito Israeliano a Gaza e in Cisgiordania, è il 208.
Accadeva il 25 marzo, ed è di poche ore fa la notizia che almeno 20 persone tra giornalisti ed attivisti , nonché residenti locali, sono decedute durante il bombardamento di un bar sul lungomare di Gaza City, in un’area che non era stata sottoposta ad evacuazione. L’intento, quindi era proprio quello di colpire uno dei pochi posti ancora collegati via internet col mondo: perché le informazioni non devono passare.
Oggi fare il giornalista a Gaza, fare il reporter a Gaza, anche solo fare delle fotografie, a Gaza, significa viaggiare con un bersaglio sulla schiena.

Vediamo cose inenarrabili, ogni giorno. Assistiamo a qualcosa che sta assumendo le fattezze di un vero incubo, qualcosa che ci sta cambiando la vita, come ai nostri nonni la cambiò il Nazismo. Ma non ne usciremo in qualche modo migliori, come accadde a loro. Non accadrà perché se a loro la Storia ha fornito l’alibi, per quanto molto labile, di ignorare cosa accadeva nei campi di sterminio nazisti, a noi questo alibi non è dato.
Sono oramai mesi, anzi sono due anni, che le vicende legate all’ultimo atto del genocidio del popolo palestinese sono note a tutti: basta andàrsele a cercare.
A voler essere precisi, sono più di settant’anni che, con atti di forza, Israele si allarga su un territorio non suo. Solo che fino agli anni ‘70 nessuno lo sapeva. Ci volle un gesto folle come l’assedio agli atleti delle Olimpiadi di Monaco ’72, e la loro esecuzione, per rendere evidente agli occhi del mondo cosa stava accadendo in quella porzione di medioriente che l’occidente, per pulirsi una coscienza a dir poco sporca, aveva istituzionalizzato come Stato di Israele. E non solo: per il mondo occidentale capitalista, un piede in medioriente rappresentava una posizione di estrema comodità.
Ci volle un atto terroristico orrendo, ma senza quel folle gesto, senza la necessità di capirne le motivazioni, di Palestina probabilmente non si sarebbe parlato ancora per moltissimo tempo.
Negli anni la storia si è ripetuta e ripetuta e ancora ripetuta, in un susseguirsi di escalation che vanno dalla protezione dei massacri di Sabra e Chatila, all’operazione Piombo Fuso, che con uno spirito unico nel suo genere ci raccontò in diretta Vittorio Arrigoni.
La fine di Vittorio la conosciamo, e proprio riguardo la sua morte, qualche interrogativo in più circa certi rapporti tra Hamas e Israele, dovremmo porcelo.
Ma non è nostra intenzione fare qui ed ora dietrologia.
E non è nemmeno nostra intenzione porre l’accento sulla disperata condizione della popolazione della striscia, costretta alla fame, alle malattie, alle uccisioni efferate. Sugli sguardi vuoti di chi sopravvive all’orrore che non sono diversi da quelli di chi dell’orrore è vittima. Sui bambini…Dio mio, i bambini, uccisi mentre cercano un poco di cibo, o acqua, con molta più facilità di quanta ne usiamo noi nello schiacciare una formica sul piano cottura della nostra cucina: anche lei in cerca di cibo, alla fine. Sono bambini, potrebbero essere i nostri, e credete che io li ho visti: i figli di Palestina hanno spesso capelli e pelle chiari e occhi color del sole. Che potrebbe sembrare una banalità, ma non lo è: sembra quasi un contrappasso. La realtà è che apparteniamo tutti indistintamente alla stessa umanità. Basterebbe studiare la Storia o farsela raccontare da chi la sa.
Non parleremo nemmeno delle mutilazioni, né dei ventri di madri aperti dalle esplosioni, mentre custodivano le loro creature che nemmeno hanno avuto la possibilità di mostrarli al mondo i loro colori.
No, non ci dilungheremo su questo, perché chi vuole certe informazioni, chi vuole farsi del male, o più onestamente, assumersi la responsabilità di una inevitabile complicità senza girare lo sguardo, perché “dà dolore”, può, ribadiamo, andàrsele a cercare.
Informazioni ignorate a lungo dal nostro giornalismo complice.
In questi due terrificanti anni, il solo canale che non ha mai mancato di fornire dati ed approfondimenti riguardo la situazione in Palestina è stato quello di Confindustria, pensate un poco.
E non senza smagliature, per carità, però lo ha fatto quotidianamente. Puntualmente. Professionalmente.
Quello su cui vogliamo invece porre più sobriamente l’accento, è la violazione di quello spazio assolutamente inviolabile in un conflitto (anche se quello Israelo-Palestinese, non è un conflitto, ma un genocidio perpetrato dai primi sui secondi), che è il diritto all’informazione.
A memoria d’uomo, non si è mai visto un attacco così minuziosamente attento agli organi di stampa.
Il giornalista è, per definizione, un territorio franco. Una sorta di Achille inviolabile, uno che sta facendo il suo lavoro. Il giornalista è protetto dallo scudo del Diritto Internazionale Umanitario.
Israele questo scudo lo ignora, se ne frega e spara sulla stampa. E quello che è più grave, è che la stessa stampa, tace. Il canale che dovrebbe inveire, inalberarsi, scioperare, denunciare, tace.
Israele, inoltre, non consente l’accesso alla stampa straniera, e quella locale la massacra con scientifica determinazione: perché non si sappia in giro cosa accade.
Ma accade invece che il mondo sia grande, sia ben oltre i confini Italici, ed Europei, sia in Oltreoceano, dove la stampa ha reagito.
Accade che il mondo sia connesso, e così anche qui certe denunce sono state portate avanti con determinazione. Con fatica, ma con successo.
Ecco perché quelle immagini è stato doveroso osservarle, anche se fanno male, malissimo credete, e ve lo dice una che ha gli incubi notturni. Ecco perché è stato indispensabile avere la forza di divulgarle. O, almeno, raccontarle.
Il mondo della musica, a dire il vero, è stato da subito sensibile al problema.
Ricordiamo il grande concerto tenutosi a Napoli nel Febbraio di due anni fa, cui hanno partecipato moltissimi artisti, comprese Fiorella Mannoia e Laura Morante: due nomi che fanno eco.
L’esperienza si è ripetuta a febbraio di quest’anno. Tutto finalizzato a una raccolta fondi, che ha avuto in entrambi i casi esiti deludenti: perché all’evento non è stata data visibilità da nessun organo di stampa.
Il termine “genocidio” riferito al massacro del popolo palestinese, che non è in guerra, semplicemente perché non ha i mezzi per farla una guerra (non ha nemmeno uno Stato universalmente riconosciuto), fino a pochi mesi fa era oggetto di attacco: non si poteva usare senza essere tirati dentro, nella migliore delle ipotesi, infinite polemiche.
E lo ricorderemo tutti il coraggio di Ghali a Sanremo nel 2024, quando lo disse chiaramente sul Palco “Stop al Genocidio”. E le conseguenze che ebbe.
Ma quel termine, “genocidio”, ha continuato a scivolare via dalle bocche, di bocca in bocca, di iniziativa in iniziativa. Lo ha usato Roger Waters (che si spende da sempre per la causa, va detto), lo ha usato Moni Ovadia, ebreo di nascita, accusato di antisemitismo, è rimbalzato di riga in riga, di nota in nota. La bandiera palestinese esposta a fine concerto, è diventata un simbolo che va ben oltre la politica, se a farlo è Mengoni. Che di politica non si è mai interessato.
E oggi, a due anni di distanza, anche se lo scempio sembra non essere destinato a finire, sono finite finalmente le accuse di antisemitismo a chi è cresciuto con i libri di Primo Levi, che ha versato lacrime su Schindler’s List, che ha sempre portato il massimo rispetto per la tragedia della Shoah ma che, non per questo, si sente in difficoltà a chiamare le cose col proprio nome.
Nel mondo la voce di popolo si è già fatta abbondantemente sentire. Noi qui in Italia, dove invece avremmo dovuto essere presenti costituzionalmente da subito, siamo arrivati parecchio tardi e in maniera piuttosto triste: una pavida manifestazione organizzata dalle opposizioni il 7 giugno, per sgambettare quella del 21 giugno, indetta in maniera più genuina dai sindacati di Base e da Potere al Popolo.
Alla prima, le bandiere palestinesi erano totalmente assenti o quasi, ma ben presenti quelle di partito, per la seconda ci si è addirittura scissi in due: perché la denuncia di questa strage di innocenti, e una presa di posizione netta per alcuni, evidentemente, non è ancora così opportuna. Possiamo parlare di Pace, di opporsi a tutte le guerre, di disarmo, ma, lo ripetiamo, quella tra Israeliani e Palestinesi non è una guerra: è il lupo che sta divorando l’agnello. E merita una presa di posizione a sé, come la meritò la Shoah.
Sabato scorso invece a Roma è accaduto qualcosa di diverso.
Promotori inizialmente i membri del Progetto mediatico Ebraico per la Liberazione della Palestina, e poi trasformatasi in qualcosa di molto più grande, in un pomeriggio che definire infernale per le temperature dà quasi un senso di frescura, un nutrito gruppo di artisti, giornalisti, personaggi dello spettacolo, della politica e circa quindicimila persone, portanti bandiera italiana e palestinese, si sono ritrovati a Porta San Paolo.
“Non in Mio Nome”, hanno voluto puntualizzare: di quello che state facendo, della complicità in cui mi state coinvolgendo, sono vittima: non ci sto.

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La cosa è nata un poco in sordina, ma è stata poi presa in mano in termini organizzativi dall’Associazione “Schierarsi”, movimento dal basso che ha tutte le intenzioni di assumere posizioni chiare e nette tanto su temi di politica nazionale quanto internazionale. E su questo scempio orrifico in particolar modo.
Margherita Vicario in testa, è stato costruito in tempi record un palco di confronto e di denuncia da cui hanno detto la loro Moni Ovadia, Alessandro Di Battista, Peter Gomez, Sigfrido Ranucci, Francesca Albanese, Greta Scarano, Martina Martorano, Alessandro Mannarino, Daniele Silvestri, Laila Al Habash, Gemitaiz Frenetik&Orang3, e molti altri, condotti per mano dalla meravigliosa Silvia Boschero.
Parole, tante, canzoni, poesia, testimonianze, immagini, tre ore e mezzo intensissime, e la richiesta esplicita di portare in piazza bandiere Palestinesi e Italiane, perché in questa brutta storia l’Italia Istituzionale, governativa e non, è sempre stata al fianco di Israele: questa volta, a dispetto di Brecht, pare che la platea del torto sia sold out.

Particolarmente toccante l’intervento di Maya Issa, attivista del movimento studenti Palestinesi, che si prende tutto lo spazio e anche di più con l’energia e la determinazione che vorremmo tornar vedere a scorrere nelle vene delle nuove generazioni, perché tutto questo riguarda soprattutto il loro futuro.
E intense da far uscire le lacrime, le testimonianze di medici e operatori sul campo che raccontano, oltre al resto, anche i traumi sui più piccoli: bambini che spesso hanno perso tutto e tutti, e cadono in depressioni profonde al punto da desiderare il suicidio. Nessuno merita questo al mondo: nessuno per nessun motivo.
Lasciamo per ultime due presenze di particolare importanza e peso: Ghali, elegantissimo, il primo artista in Italia a salire su un palco importante denunciando il genocidio, che ha ribadito la gravità di questo immenso torto che l’umanità sta compiendo a favore di telecamera.

E Rula Jebreal, la giornalista e scrittrice Palestinese, che vive negli Stati Uniti, che con il suo libro coraggiosamente intitolato proprio “Genocidio”, recentemente presentato a Roma, ha piantato una pietra miliare nel terreno della doverosa consapevolezza che di accanimento razziale si tratta.
E’ lei che ci racconta dell’ultimo post di Hossam Shabat, 22 anni, giornalista di Al Jazeera e delle sue ultime parole: “non smettete mai di parlare di noi, di parlare di Palestina, vi prego”.

Non smetteremo, nel Vostro Nome.

Roberta Gioberti