Semplice: l’epifania di Motta e il punto di approdo nel terzo disco del cantautore

Esce su etichetta Sugar, “Semplice”, il nuovo album di  Motta. Un disco che fin dalla traccia di apertura palesa l’ urgenza di Motta di crescere sia come persona, sia come artista, semplicemente accettandosi e riappacificandosi con le proprie contraddizioni attraverso un processo di semplificazione e di ritorno alle cose semplici. Per il suo nuovo disco Motta riparte dall’attenzione nei confronti delle piccole cose, dall’importanza di ogni attimo vissuto, dalla quotidianità in quanto dimensione che sfugge, ma sempre presente e fondamentale per quel che sarà. Il suo volto non compare in copertina: siamo a una sintesi che è in sé una nuova fase in cui l’autore compie un passo indietro per lasciare che a parlare siano le canzoni, parole e musica che cogliendo stati d’animo, emozioni, immagini fugaci, più che raccontare una storia tratteggiano un’interiorità che dialoga con se stessa e riflette sulle proprie incongruenze per accoglierle in un abbraccio.

Motta ph Claudia Pajewski

Motta ph Claudia Pajewski

Musicalmente “Semplice”, prodotto dallo stesso Motta, nel suo studio di Roma, insieme a Taketo Gohara, è un disco suonato, energico e potente dietro al quale c’è stato un grande lavoro di produzione volto ad ottenere un suono stratificato, pieno e di respiro internazionale, con una grande cura per i dettagli e un modo originale di arrangiare attraverso gli archi curati da Carmine Iuvone.. Una produzione articolata nella quale emerge chiara, semplice ed in primo piano, la voce e che, rispetto ai due lavori precedenti, rispecchia la volontà di avvicinare sound e arrangiamenti alla dimensione live intesa come fondante. Tra i musicisti coinvolti, molto presenti nella registrazione, il percussionista brasiliano Mauro Refosco (David Byrne , Red Hot Chili Peppers, Atom For Peace,…) e il bassista Bobby Wooten (David Byrne) che han lavorato con Motta da remoto da New York.

Ecco cosa ci ha raccontato Motta in occasione della presentazione del disco:

“Semplice” è un lavoro iniziato a partire da 3 anni fa. Ci sono alcune canzoni che ho scritto mentre stavo scrivendo “Dov’è l’Italia”. Per la prima volta ho avuto tanto tempo per stare dietro a queste canzoni. Ci sono brani nati prima della pandemia che non hanno proprio retto il colpo. “Qualcosa di normale”, invece, pur essendo nata prima della pandemia, ha acquisito importanza con le vicende che sono successe dopo. Altre canzoni non ce l’hanno fatta non perché non fossero legate alla realtà ma perché c’è stato un acceleratore che mi ha portato a vedere e a scremare gli errori.

A gennaio 2020 sono andato a New York a vedere un concerto di David Byrne, l’ultimo suo progetto è stato una cosa incredibile. L’ ho reincontrato Mauro Refosco con cui avevo lavorato in “Vivere o morire”. Mi ero ripromesso di fare una jam session in studio con lui e Bobby Wooten.

Questo non è successo ma ha portato a un’organizzazione del disco di cui sono particolarmente contento. Con Mauro alla fine ho lavorato a distanza ma su tutte le canzoni, ci sono produzioni di elettronica e abbiamo avuto tempo di lavorare con il violoncellista Carmine Iuvone. Una delle prima cose che avevo in mente era proprio trovare un modo di concepire gli archi in un modo diverso da quanto fatto prima. Nel live del tour con Les Filles de Illighadad ci siamo trovati a fare rock con il violoncello, per questo abbiamo creato un modo di interagire che in questo disco ho voluto sviluppare con tutto il quartetto. Sugli arrangiamenti c’è stato tantissimo tempo dedicato, l’anno scorso ho sentito la mancanza delle persone e quindi, mentre su “Vivere o morire” mi sono sforzato per creare una situazione di vertigine, l’anno scorso la vertigine era dovuta non solo a quello che stava succedendo ma nel mio mettermi in gioco. Il lavoro in studio con la band è stato un punto focale rispetto al lavoro precedente. In questo lavoro le canzoni dal vivo e su disco si avvicinano molto ma non è un risultato facile da ottenere.

Sulla scrittura dell’album mi ha dato una mano Gino Pacifico. Per la prima volta ho continuato a lavorare con delle persone con cui avevo già lavorato, come è successo anche con Taketo Gohara. Questo ha creato una sensazione di divertimento nel fare musica da parte mia. Guardami intorno, a sto giro, non potevo davvero lamentarmi. Mi sono reso conto che sono fortunato a fare questo mestiere, a prescindere dalle pacche sulle spalle e dai live che per me sono dei festeggiamenti.

La verità è che ho fatto questo disco per me. Cito volentieri Colle Der Fomento: “Io faccio il mio e non lo faccio ne pe loro ne pe l’oro. Lo faccio solamente perché sinno me moro”. Ci sono stati dei momenti in cui mi sono chiesto perché faccio questo mestiere, ho vissuto per qualche mese in campagna e caitava che passavo davanti alla mia chitarra e a volte mi dava pure noia. Ho lavorato su me stesso, c’è stata una fase in cui non riuscivo più a stare in città perché stava diventando lo specchio di quello che non potevo fare. Io e mia moglie Carolina abbiamo vissuto dei mesi in campagna e mi sono fatto questo grande regalo di fare un percorso personale che sicuramente mi servirà. L’anno scorso ho sentito l’urgenza di far sì che ci fossero dei bei ricordi e non è stato facile. Ascoltavo poca musica nuova in quanto dal momento in cui ascolti una canzone, quella ti creerà un ricordo che ti poterai dietro. Ho quindi ascoltato musica fino al’75, a parte di il nuovo di Paul Mc Cartney, il disco di Bianconi. Per questi artisti è stato faticoso far uscire queste canzoni. L’ascoltatore era impaurito dal creare un ricordo. Per questo ho cercato queste cose altrove, solo piano piano sono tornato a riprendere il disco e a tornare con lucidità a concluderlo in un nuovo modo

Ecco perché in questo disco c’è un racconto a prescindere dal fatto che l’ascolteranno in quattro, per me è importante che ci sia un racconto. Un po’ come quando metti insieme la scaletta dei concerti: è fondamentale come inizia e come finisce. La conclusione del disco è molto nera, quello tribale è un mondo che sto esplorando e mi piace pensare che il prossimo disco ripartirà da lì. Sono veramente convinto che una traccia strumentale possa avere un racconto. “Quando guardiamo una rosa” l’ho scritta insieme a Dario Brunori con cui mi sono trovato benissimo. Siamo amici ma non avevamo mai lavorato insieme. Avevo il sogno di trovare un altro punto di vista. Dal mio canto sentivo l’urgenza di raccontare un periodo nero collettivo. Ho pensato che forse non c’erano le parole giuste per raccontarlo, perciò ho preferito il suono prendendo come esempio il Bolero di Ravel.

“Semplice” è nato come un cercare di arrivare all’essenziale ma non è minimale,anzi è molto corposo. La cosa più difficile da fare è stata andare ad eliminare il superfluo, cercare di concentrarsi sulle cose importanti. Questo lavoro alla fine mi ha fatto sentire contento del risultato ottenuto. Ci sono tante canzoni in cui accetto di dire che va tutto bene e non me ne vergogno. Sono molto attaccato alla cose che mi fanno stare bene, non sono tantissime ma ho finalmente capito quali sono.

Nel brano “Qualcosa di normale” canto con mia sorella Alice. Volevo che ci fosse accanto a me una persona scelta nel profondo. Questa cosa implica che a seconda di come e con chi canti, i significanti cambiano significato. La canzone ha cambiato volto e significato cantandola con lei.

MOTTA_ph claudia pajewski

MOTTA_ph claudia pajewski

Al titolo del disco, invece, sono arrivato alla fine. Mi sono accorto che la semplicità era il focus. Mi sono letto le lezioni di Calvino sulla leggerezza e ho capito che quello che ho sempre cercato di dire è che la leggerezza è una conquista, non un punto di partenza. Rispetto alle altre volte, sono partito concentrandomi sugli arrangiamenti e sulla musica. I testi sono stati faticosi come al solito ma mi sono sentito più libero nel processo. Prima avevo molta paura di fermarmi, nei due lavori precedenti c’era paura del tempo, ero legato al passato e mi giudicavo molto. Non capivo perché esistevano tante contraddizioni nelle cose che avevo fatto, adesso invece per la prima volta le accetto. Nel momento in cui rimani fermo a pensare, riesci a realizzare come stai, durante questo processo mi sono preso un momento per immaginarmi un futuro, per capire dove volessi andare, per accettare di essere presente in una città. Prima mettevo sempre la provincia nelle canzoni, mi sono accorto che Trastevere ha tante cose in comune con Pisa e finalmente ho preso coscienza del fatto che Roma sia la mia città. Prima c’era la sensazione di essere stato adottato, ad un certo punto, dopo dieci anni, mi sono resto conto che questa è la mia città. Non sono molto attaccato alla Toscana, anche nel brano “Qualcosa di normale” mai avrei pensato di usare la parola sanpietrini. In questo ha inciso avere uno studio di registrazione a Trastevere. In Via Ettore Giovenale avevo uno studio molto piccolo e tante percussioni, poi c’è stato il passaggio a Torpignattara. Ora questo studio mi ha permesso di dividere meglio la vita personale da quella artistica e riesco a far pesare di meno al mondo che mi circonda il fatto che io stia scrivendo un disco. Da questo punto di vista sono migliorato, più sopportabile e credo che anche musicalmente si senta molto che ci sia un luogo esterno che è diventato il mio centro focale.

Video: E poi finisco per amarti

Pensando al discorso dei live, egoisticamente dico che tutto ripartirà da noi, mi guarderò a destra e a sinistra, vedrò la mia band e tutto partirà da un sorriso. Questo non significa che ci si debba nascondere per forza dietro a un sorriso, penserò tanto alle persone che hanno lavorato con me e non avranno la fortuna di salire sul palco perché fanno un altro mestiere. Mi sento fortunato perciò farò un sorriso a metà, è tanto tempo che non vedo la gente, deve partire tutto da un grande senso di responsabilità. Le condizioni sono quelle che sono, ci saranno posti limitati ma ho deciso che andrò a presentare il disco con la band a prescindere. Non è stato facile mettere insieme il tour con tutta una produzione, magari non ci saranno tante luci ma era importante andare in giro con i musicisti. Avere iniziato a 18 anni e non avere posti per suonare, suonando per strada e cercare di avere sempre un modo di fare questo mestiere a ogni costo, mi ha aiutato. Non sarà facile ma senza il palco, muoio; quindi ci sarò.

Raffaella Sbrescia

Motta tornerà questa estate dal vivo con un tour estivo a supporto del nuovo lavoro discografico. I primi due concerti, annunciati oggi, faranno parte del tour estivo e saranno il 21 luglio a MILANO al CARROPONTE e il 10 settembre a ROMA all’AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA. Organizzato da Locusta Booking, i biglietti per i concerti sono disponibili in prevendita da oggi su www.mottasonoio.com.

Questa la tracklist del disco:

A te

E poi finisco per amarti

Via della Luce

Qualcosa di Normale

Quello che non so di te

Semplice

Le regole del gioco

L’estate d’autunno

Dall’altra parte del tempo

Quando guardiamo una rosa

Videointervista a Motta: “Scrivo canzoni perché ho urgenza di raccontare la verità”

Motta

Motta

Alla 69esima edizione del Festival di SanremoMotta presenta Dov’è l’Italia, brano scritto e composto interamente da lui. Disincanto, smarrimento e perdizione fanno capolino all’interno di un testo intenso e dirompente. 

Motta, coerente e fedele alla sua poetica, non ha mai avuto il timore di schierarsi, e ha deciso di portare al Festival di Sanremo un brano che nasce dall’urgenza di raccontare il disorientamento di fronte a quello che sta accadendo oggi nel suo Paese e il timore che si possano perdere i principi di umanità e civiltà che dovrebbero costituire le fondamenta per una convivenza possibile. 

Dopo essersi aggiudicato il premio per il miglior duetto insieme a Nada a Sanremo, l’artista prosegue la sua strada all’insegna della verità e dell’impegno sia artistico che civile.

Qui la videointervista completa a cura di: Raffaella Sbrescia

 

Motta in concerto all’Alcatraz: quante cose possono cambiare in un anno.

Motta

Motta

“La voglia di non dimenticare e il coraggio di lasciarsi andare” sintetizzano il fulcro della nuova fase artistica di Francesco Motta. A un anno esatto di distanza da quel nervosissimo 31 maggio 2017, Motta torna sul palco dell’Alcatraz di Milano con un nuovo album sulle spalle e tanta esperienza di vita in più. La transizione tra “La fine dei vent’anni” e “Vivere o morire” è stata scandita da una maturazione personale e artistica che trasuda dallo sguardo fiero dell’artista. Ruvido fuori e assolutamente romantico all’interno dei suoi testi, Motta seziona i suoi brani, ne mette solo 17 in scaletta e li arricchisce di vibranti innesti strumentali in un concerto vivo, concreto, suonato, sentito. Il biglietto da visita parla subito chiaro: “Ed è quasi come essere felice”, introdotto da una lunga e psichedelica premessa. L’aspetto di Motta è di quelli che trasmettono inquietudine ma la sua voce e il suo sguardo catalizzano l’attenzione verso parole cercate, studiate, riposte, riprese, scelte, volute, tramandate. Il viaggio di Motta è un andirivieni tra il presente e il passato, è un gioco di tasselli che convergono in una scarica adrenalinica che non può essere arginata. Va ascoltato tutto d’un fiato Motta, Prima o Poi Ci Passerà a Sei Bella Davvero, La Fine Dei Vent’Anni, Abbiamo Vinto Un’Altra Guerra, Roma Stasera, Del Tempo Che Passa La Felicità, La Nostra Ultima Canzone, l’inaspettata “Fango”, testimoninanza degli anni con i Criminal Jokers e quella struggente “Mi parli di te”, che rivela in tutto il suo splendore la sensibilità di un rocker non più maledetto.

 Raffaella Sbrescia

Scaletta:

Ed è quasi come essere felice
La fine dei vent’anni
Quello che siamo diventati
Vivere o morire
Chissà dove sarai
La prima volta
Per amore e basta
Prima o poi ci passerà
Del tempo che passa la felicità
E poi ci pensi un po’
Prenditi quello che vuoi
Roma stasera
Encore:
Se continuiamo a correre
Abbiamo vinto un’altra guerra
Sei bella davvero
La nostra ultima canzone
Fango (Criminal Jokers)
Mi parli di te

Intervista a Motta: “Vivere o morire” è un album che vi fa capire come la penso e da che parte sto.

MOTTA_ph Claudia Pajewski

MOTTA_ph Claudia Pajewski

“Vivere o morire” è il titolo del nuovo capitolo discografico di Motta. Dopo la lunga gestazione de “La fine dei Vent’anni”, il cantautore torna in scena con un album emotivamente ricco con testi densi e arrangiamenti caratterizzati da un substrato  musicale suddiviso su più livelli. L’impostazione dicotomica del titolo lascia intuire subito un’intenzione chiara: rivelarsi senza filtri, svelare da che parte stare; senza sfumature di grigi. Motta si lascia andare, decide che è ora di restare, di essere consapevole, di dare spazio all’urgenza espressiva, all’intimismo, all’anima.

Intervista

Ciao Francesco, raccontaci come stai e come hai vissuto la gestazione di questo nuovo disco.
Ho conquistato una felicità che mi sono guadagnato. Fare dischi è difficilissimo, suonare mi diverte, scrivere i testi invece è davvero complicato. Si tratta di un processo che richiede consapevolezza, impegno, responsabilità. Stavolta ho lavorato in modo diverso, in primis perchè avevo molti più mezzi a disposizione, lavorare a New York non è chiaramente lo stesso che lavorare a casa. Il trucco è stato è non metterci trucchi. In questo disco vi dico da che parte sto e come la penso:  sto dalla parte del vivere ovviamente.

Dal punto di vista musicale invece?
Ho prodotto questo album insieme a Taketo Gohara ma ho suonato molte più cose io stesso. Così come tengo molto a riconoscere il lavoro delle altre persone, stavolta mi piace riconoscerlo a me stesso. Prima di cominciare il lavoro, avevo parlato con Riccardo Sinigallia che mi ha subito detto che stavolta non sarebbe stato lui il mio produttore artistico. Il lavoro di Taketo è stato importante perchè è molto diverso da me e Riccardo, ha svolto un lavoro complementare. Molti potranno obiettare che questo album sia nato in molto meno tempo ma non è vero, ho recuperato anche cose scritte nel 2011. Nel primo disco la gestazione è stata più lunga, più spalmata, non c’era la concentrazione che c’è stata adesso per questo disco a cui ho lavorato 24 ore su 24.

Cosa c’è di completamente nuovo in te e quanto ti porti indietro del passato?

Mi conosco meglio di prima, ho passato più tempo con me stesso. Dopo più di 100 concerti in giro, ho avuto modo di guardarmi indietro e fare delle scelte. L’ultimo brutto ricordo risale al concerto all’Alcatraz di Milano, l’ultimo del tour: non mi sentivo all’altezza di affrontare quel tipo di emozioni. Quando sali sul palco per spaccare tutto, stai sul palco nel modo peggiore in assoluto. In seguito, dopo 3 settimane di silenzio, mi sono vissuto il concerto del 1 maggio al meglio. Per me quel concerto all’Alcatraz è stato eccessivo, sono io che devo sentirmi pronto e se per primo mi accorgo di un errore, sono il primo a incazzarmi. Crescendo mi sono accorto che non è tanto importante la forza quanto scegliere di incanalarla bene. Bisogna capire come si impiega il tempo, questo tipo di considerazioni non le avevo mai fatte prima. A 20 anni mi affascinava descrivere il bivio, ora mi sento pronto a prendere una delle due strade, non so se sia quella giusta ma è la mia.

L’album si chiude con il brano “Mi parli di te”. Un testo molto intimo…

Avevo già parlato dei miei genitori, spesso ne parlo. In questo caso è stato molto complesso scriverne. Ho cercato di guardarli come degli essere umani pieni di pregi e di difetti, questo mi ha portato ad avvicinarmi molto di più a loro.

Tutti, a questo proposito, ricordano ancora con emozione il video del brano “Del tempo che passa la felicità”.

Ricordo che durante le riprese non ci siamo mai incrociati, poi soltanto alla fine ci siamo incontrati e abbiamo vissuto un attimo molto vero. In quel momento c’è stato qualcosa di intimo e privato, mentre tornavamo a casa abbiamo realizzato di non aver mai visto un tramonto insieme prima di allora.

Prima accennavi alla lunga gestazione de “La fine dei vent’anni”, magari adesso avevi semplicemente necessità di lasciarti andare e riempire al massimo questi nuovi testi.

Prima avevo una forte ingenuità nei confronti della mia esperienza di cantautore. In qualche modo c’era una confusione giustificata. In generale, per scrivere, mi serve sempre un gancio emotivo, ci vuole un’idea che mi serve per partire con la scrittura. Stavolta sono andato così tanto sul personale che non era giusto arrivare a compromessi. Ho scelto questa direzione a costo di essere scomodo e di non lasciare spazio per pensare. Ci sono frasi che ti arrivano come coltellate, le ho scelte per sentirmi meglio subito dopo. Per me questo è ciò che conta: ho esorcizzato tantissime cose, ho tolto tutto quello che era in più. In questo disco ci sono nove canzoni, non dovevano essercene nè in più nè in meno. Sono più tranquillo e più sobrio; questo album me lo sono guadagnato.

In “Vivere o morire” canti della paura di dimenticare. Tu ce l’hai?

La paura di dimenticare è quella più grande. Non voglio dimenticare gli affetti, da dove sono partito, quello che ho sbagliato. Per poter crescere la cosa più importante è l’accettazione dell’errore. Secondo la concezione binaria della vita bisogna scegliere se restare o andarsene, io scelgo di restare ma non voglio dimenticarmi delle scelte sbagliate.

Video: Motta presenta “Vivere o  morire”

Per quanto riguarda gli arrangiamenti di questi pezzi, cosa ti sei portato dietro delle tue precedenti esperienze?

Non smetterò mai di ringraziare i miei musiciti con cui sono cresciuto. Ne “La fine dei 20 anni” ho praticamente rivisto tutti i brani in funzione del live. Al soundcheck filava tutto troppo liscio e ho pensato che ci fosse qualcosa che non andava. Mi è piaciuto e mi piace tuttora scrivere musica al computer, non la vivo come una maniera fredda di scrivere canzoni, mi piace la concezione digitale della musica.

Con questi presupposti, stavolta sei volato fino a New York con Taketo Gohara.

Sì, Taketo ha sfruttato questa mia tendenza a suonare un po’ tutto e male. Quindi siamo finiti nello studio di registrazione di Keith Richards e lì, oltre al grande Mauro Refosco, abbiamo trovato una serie di strumenti che non avevo mai visto e sentito. All’inizio mi sono spaventato, ma d’altronde in qualche modo per poter essere produttivi, bisogna essere spaventati da quello che si fa. Sono rimasto diversi minuti a suonare una sola nota senza muovermi, c’erano molti sintetizzatori, alcuni dovevamo fisicamente cercarli. Abbiamo trovato energia pronta a essere detonizzata.

Che musica ascolti adesso?
Ascolto poca musica, soprattutto quando lavoro alla mia. Ultimamente mi sono emozionato ascoltando il disco di Filippo Gatti. Il rap non mi interessa molto anche se è mi è sempre piaciuto Salmo per la sua concezione molto simile alla mia. Alla fine comunque finisco sempre con l’ ascoltare “Rimmel” di De Gregori. La trap è sotto gli occhi di tutti, non possiamo far finta di niente. Ascoltandola mi accorgo di non essere preparato, mi sono scoperto invecchiato e testualmente distante. In ogni caso mi fa piacere vedere ragazzi giovanissimi in grado di fare cose che io a sedici anni certamente non facevo.

Che rapporto c’è tra la tua musica e le immagini?

C’è tanta immagine nelle mie canzoni. Lo stesso mi è capitato anche quando ho lavorato per la realizzazione di colonne sonore. In quel caso ci sono tanti ego che devono collaborare, in quel contesto ho imparato a sapermi mettere anche da parte.

Sebbene tu sia riconosciuto come artista indie, andresti a Sanremo?
Il mio desiderio è che la mia musica possa essere ascoltata dal maggior numero possibile di persone. Quello che conta è che questo non sia mai il presupposto con cui scrivere. Al Festival della Canzone italiana ci andrei se avessi una canzone giusta. Non c’entra il concetto di pop, per partecipare a Sanremo devi essere inattaccabile e portare una canzone adatta al contesto.

Raffaella Sbrescia

Di seguito la tracklist dell’album:
1. Ed è quasi come essere felice
2. Quello che siamo diventati
3. Vivere o morire
4. La nostra ultima canzone
5. Chissà dove sarai
6. Per amore e basta
7.La prima volta
8.E poi ci pensi un po’
9.Mi parli di te

A maggio, Motta tornerà dal vivo con quattro eventi, anteprima del “Motta live 2018″, organizzato da Trident Music. Questo il calendario dei concerti:
26 maggio ATLANTICO Roma
28 maggio ESTRAGON Bologna
29 maggio OBIHALL Firenze
31 maggio ALCATRAZ Milano

I biglietti per le quattro date sono disponibili in prevendita sul circuito www.ticketone.it e presso tutti i punti vendita abituali.