Luca Colombo, un professionista preparato e anche di più

Luca Colombo, Lei è chitarrista, compositore, arrangiatore ed insegnante affermato nel panorama della scena musicale italiana. Qual è la chiave del suo successo professionale?
“Più che una chiave esistono dei punti di riferimento che è bene mantenere. Cito, ad esempio, una domanda che spesso mi viene fatta durante i seminari che tengo che è “Come si fa questo lavoro?” Prima di tutto nel 2013 bisogna tenere presente che bisogna essere preparati, saper leggere la musica e conoscere tanti elementi del linguaggio musicale. Dico 2013 perché per tanti anni fa la figura del musicista era legata un po’ più all’istinto e c’era poca preparazione soprattutto nell’ambito pop, poi ci sono tanti elementi di contorno che sono legati alla professionalità come l’ essere affidabili e avere una strumentazione tale da consentire prestazioni eterogenee”.
Quando è nata e come si è sviluppata la sua passione per la chitarra?
“Intorno ai 10 anni ho cominciato a suonare per divertimento, inizialmente ascoltavo un po’ di tutto, bastava che ci fosse semplicemente della chitarra poi ho avuto varie fasi, più rock, più jazz, più blues per cui sono passato dalla fase Deep Purple, Led Zeppelin e Pink Floyd a quella più jazz con Wes Montogmery, Charlie Christian poi verso 16 anni mi ha preso una passione molto forte, ho cominciato a distaccarmi dai vari punti di riferimento e ho iniziato a studiare in maniera molto più costante fino a quando, avvicinandomi ai 20 anni, ho capito che la mia passione poteva diventare una professione e quindi c’è stato un periodo in cui studiavo anche tra le 8 e le 10 ore al giorno per cercare di migliorare il più possibile le mie qualità tecniche”.






















In una delle sue innumerevoli Masterclasses ha dichiarato che “ Il suono è il vestito di una persona”. Cosa intendeva dire?
“Il contenuto strumentale, le scale utilizzate, gli accordi  sono tutti elementi fondamentali ma una sonorità particolare, emozionante fa si che il suono arrivi molto di più. Anche una stessa nota può essere fatta con tanti suoni diversi e progressività dinamiche diverse per cui questa è una cosa assolutamente personalizzante. La medesima cosa suonata da vari artisti può assumere connotazioni estremamente diverse per cui se riesci ad avere una riconoscibilità del suono paragonabile a quella delle voci dei cantanti hai raggiunto il tuo massimo obiettivo”.
E ancora “Bisogna studiare molto a chitarra spenta se si vuole ottenere un buon suono di base e un buon tocco”. Quanto incide il tocco sulla resa del suono per un chitarrista?
“Incide, secondo me, almeno al 50% anzi anche di più perché è vero che la chitarra elettrica può regalare della dinamica in più, del volume, della distorsione e degli elementi un po’ più tecnici però è altrettanto vero che se non si ha un buon tocco si rischia di spersonalizzare il suono. Bisogna, perciò, partire da uno studio del suono della chitarra elettrica come se si trattasse di una chitarra acustica e colorarlo”.
“Vita da chitarristi” è il titolo del Manuale di tecnica, meccanica, armonia e consigli utili per il chitarrista moderno che Lei ha scritto.
Al suo interno fornisce fondamentali lezioni, divise per moduli, basi, esercizi di riscaldamento e da scrivere. Se potesse fornire tre aggettivi per definire il suo metodo di lavoro quali userebbe?
“Più che aggettivi userei dei sostantivi. In primis determinazione ed essere consapevoli di quando quanto bisogna studiare, poi anche la differenziazione è molto importante per affrontare differenti linguaggi musicali e poi l’ emozione è un elemento che non deve mai mancare ma deve convivere con il lato razionale di noi stessi”.
















Diversi magazine di settore hanno descritto le sue spiegazioni come funzionali, concrete e pragmatiche. Si può dar loro ragione o dietro il rigore e la disciplina c’è dell’altro?
“Sicuramente la definizione didattica è giusta però cerco sempre di fare in modo che al pubblico arrivi il mio lato emotivo. Spesso la difficoltà di chi fa il mio mestiere, anche in tv, è cercare di leggere la musica senza essere schematici o didascalici ma essere invece comunicativi. Spero quindi che questo sia un aspetto di me che arrivi”.
“Sunderland” è il suo ultimo album, pubblicato con la sua band (Lele Melotti, Paolo Costa, Giovanni Boscariol), il cosiddetto “dream team”. Cosa ha ispirato questo progetto e qual è la cifra stilistica che lo definisce?
“L’ispirazione è in realtà dettata più da un’esigenza. Ogni volta che ho fatto un disco è stato perché sentivo il bisogno di farlo magari perché nel corso degli anni avevo composto dei brani che volevo registrare. Per quanto riguarda lo stile non so caratterizzare la mia musica, in realtà non appartengo a un territorio rock, nè pop, nè jazz, però posso dire che c’è molta coerenza con ciò che faccio con gli artisti con cui lavoro. Di sicuro ci sono degli aspetti di me che di solito non posso mostrare come ad esempio un ‘impostazione molto più melodica degli assoli”.
In una recente intervista ha spiegato che questo album è un viaggio ispirato da luoghi, persone o dimensioni che hanno avuto modo di interfacciarsi con lei. In quali tracce pensa che tutto questo traspaia in maniera più evidente?
“In linea di massima direi un po’ in tutte però nello specifico ci sono tracce più sognanti, oniriche tipo Sunderland, la title track oppure Sottovento che, tra l’altro, è un brano che ho composto per una colonna sonora di un film, poi c’è Secretsche quando ascolto rievoca una sua storia, un suo racconto e questo è un po’ denominatore comune a tutte le tracce”.
Parlando dei suoi primi due dischi quali sono le caratteristiche che li differenziano da questo ultimo?
“Partiamo dal mio secondo disco che, essendo un tributo ai Beatles, aveva chiaramente un fattore compositivo per lo più assente anche se, nelle versioni strumentali, ho inserito delle parti che non erano presenti nei brani originali per cui una piccola parte compositiva esiste. Inoltre è registrato in acustico quindi rappresenta una veste di me in cui mi si vede meno spesso, di solito uso la chitarra elettrica per cui quello rimane un mio episodio acustico molto particolare. “Haze on the Water” è  invece, il mio primo disco e come tutti i primi dischi di un’artista è un po’ una raccolta di varie fasi della mia vita. Lì, a differenza di quest’ultimo album, non c’è un denominatore comune però costituisce un elemento importante della mia carriera compositiva e artistica”.























A proposito del premio “Miglior chitarrista dell’anno” ricevuto alla Fiera internazionale della Musica di Villanova d’Albenga lo scorso 25 maggio, ha scritto sulla sua pagina Facebook: “Non sono un fanatico di classifiche o votazioni però sono felice di questo premio che, per quanto non abbia valore assoluto, certifica ed afferma il mio impegno nella carriera artistica e didattica, che quest’anno si sono espressi con la pubblicazione del mio terzo album solista e del primo volume del mio metodo, oltre a decine di concerti e seminari in giro per l’Italia”. Cosa si prova ad essere il miglior chitarrista dell’anno?
“Ecco, come ho specificato, a questo premio do un valore relativo e non assoluto perché non trovo competizioni con i miei colleghi italiani nel senso che abbiamo tanti bravi chitarristi ed ognuno ha la sua da dire però lo vivo come il riconoscimento dell’affermazione della musica strumentale chitarristica in Italia. Ci sono tanti colleghi bravissimi che magari non hanno progetti artistici su cui lavorano io invece ho cercato di portare la conoscenza della musica per chitarra sui grandi palchi o comunque situazioni con grandi numeri. Un esempio è l’edizione di “Scherzi a parte” dello scorso anno in cui io, oltre che chitarrista, ero direttore d’orchestra ed ho cercato di inserire dei momenti strumentali nello spettacolo per cercare di dare una fama alla musica strumentale per chitarra in Italia, quindi il premio lo vedo più come un’affermazione di questo tipo di ruolo”.
Per un professionista pluripremiato come Lei, quali sono i contesti più emozionanti?
“Direi che sono tutti emozionanti, a parte la prima di un tour dove cerchi di capire  se tutto il lavoro che hai fatto prima sarà corretto e se potrai suonare bene come hai fatto durante le prove, sento di più il ruolo di responsabilità nel tenere un mio concerto davanti a 300 persone piuttosto che davanti a 100000 persone come mi è successo ad un concerto di Eros Ramazzotti quando siamo andati in Sud America proprio perché c’è un ruolo differente da svolgere. Un momento davvero emozionante che ricordo risale a quando ho eseguito “Nessun dorma” all’Arena di Verona da solo di fronte a migliaia di persone, forse quello è stato il momento più emozionante della mia carriera. In ogni caso provo ad esorcizzare questi momenti cercando di immaginare come mi sentirò durante la performance preparandomi molto più di quello che serve. Per esempio se un brano dovrà essere eseguito a 100 Bpm di metronomo, lo studio a 150 così al momento della performance sarò sicuramente oltre il livello della preparazione necessaria. Questa è una cosa che cerco di fare sempre perché di solito c’è un abbassamento della capacità di rendimento di almeno il 30 %”.
Cosa si prova all’inizio di ogni nuovo tour e quali sono i sentimenti che l’accompagnano durante ogni volta tutto il percorso?
“Innanzitutto è molto importante tenere i piedi per terra perché si tratta di un tipo di vita molto diversa da quella che si conduce normalmente a casa. Il tour è una frazione di vita un po’ irreale, che ti porta a viaggiare in posti in cui magari non andresti con le tue forze e che ti fa incontrare persone che ti stimano e che ti chiedono foto e autografi però è solo un momento della tua vita per cui è fondamentale avere una famiglia, degli amici e degli affetti cui fare riferimento”.
























Cosa consiglierebbe ad un giovane che volesse provare a diventare un musicista?
“Innanzitutto consiglio di suonare il più possibile dal vivo, adesso tanti tendono a postare i video su Youtube e a contare molto sul web per cercare consensi e magari qualche contatto però l’esperienza live è sempre quella che crea più vicinanza ed alleanza con altri musicisti e poi di vivere tutte le esperienze possibili: magari anche una serata in cui non si crede per niente può aprire nuovi orizzonti o comunque far conoscere nuove persone. Infine la costante preparazione costituisce sicuramente un valore aggiunto”.
Quali sono i suoi prossimi impegni?
“Attualmente sono in tour con Marco Mengoni. Oltre che chitarrista sono direttore musicale ed è un incarico che ho accettato molto volentieri perché ho avuto la possibilità di mettere voce sugli arrangiamenti del tour e  rivisitare i vecchi brani di Marco. Poi sono 7 anni che suono nell’orchestra del Festival di Sanremo e, anche se non si sa mai se si viene riconfermati, può sicuramente essere considerato un altro mio ipotetico impegno. Tra ottobre e novembre dovrebbe uscire il secondo volume del mio Metodo, che è quasi pronto, e poi ci sarebbero dei live con la mia band ma in questo momento siamo fermi perché Melotti e Costa sono impegnati con Renato Zero mentre Boscariol è con Cremonini e io sarò ovviamente impegnato con Marco fino ad ottobre.
Infine ci sarebbe un’idea molto bella che unirebbe didattica ed immagine Gibson ma è ancora tutto work in progress”.