Max Pezzali presenta Astronave Max: “La vita è un gioco di prospettive ma c’è sempre spazio per la realizzazione personale”

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Max Pezzali sviluppa e sviscera i dettagli di quel “Il mio secondo tempo”, risalente alla pubblicazione di “Terraferma”, nel 2011, con un nuovo album di inediti metaforicamente intitolato “Astronave Max”, un luogo/non luogo da cui guardare il mondo da una nuova prospettiva, più consapevole, eppure possibilista. Max canta, scrive e descrive ciò che conosce meglio e, attraverso la descrizione puntuale e malinconica delle cattedrali dei giorni nostri, dei nuovi luoghi/non luoghi di aggregazione/disgregazione della società, repliche l’uno dell’altra, si addentra nei meandri del logorio della vita moderna. Il disco rappresenta, dunque, un viaggio gradevole nell’universo di Max, un universo che difficilmente tratta dei massimi sistemi ma che, proprio per questo, si presenta così vicino al nostro. Prodotto da Claudio Cecchetto e Pier Paolo Peroni con Davide Ferrario, Astronave Max si compone di 14 tracce che lo stesso Max ci ha spiegato in occasione della presentazione dell’album. Una lunga chiacchierata in cui l’artista si è raccontato senza filtri mettendo tutti i presenti a loro agio in un contesto davvero amichevole e alla mano.

Max cosa rappresenta per te l’astronave che dà il titolo al tuo nuovo album?

L’astronave può avere una doppia interpretazione: da un lato è l’astronave madre che racconta quel luogo non luogo simbolo del nostro tempo, ovvero il centro commerciale. Astronave Madre”, ad esempio, è un pezzo psichedelico in cui parlo di questo luogo in cui vado spesso, un teatro in cui sono rappresentate le vicende umane di persone che diventano quasi degli automi. Da qui l’idea di intitolare l’album Astronave Max: il tema centrale è l’allontanarsi dalla Terra e vedere le cose in prospettiva. A 47 anni vedo ancora in un modo abbastanza simile a prima, ma l’età ti porta ad avere una diversa prospettiva, ciò che vedi è messo in un contesto più largo, da cui riesci a comprenderne la relatività. La vita è un gioco di prospettive e di allontanamenti, di rimettere tutto al proprio posto e l’età di dà un maggiore distacco, ma sempre con l’idea che le cose finiranno sempre bene. Tutto sommato la contemporaneità, con tutti i suoi difetti e limiti, rappresenta il punto più avanzato che l’umanità, fino a questo momento, ha raggiunto.

Sei stato il cantore della provincia degli anni ’90. Secondo te con internet e la tecnologia c’è ancora questo senso di comunità, di provincia?

Io credo di sì, ma ho notato che la provincia che conoscevo io è molto cambiata perché molte zone sono diventate aree dormitorio. La crisi ha colpito i piccoli centri più delle città e la gente ora lavora a Milano, le persone non sono più fisicamente lì in provincia, ci arrivano la sera tardi e se ne vanno la mattina presto, senza vivere i luoghi. La provincia negli anni ’90 aveva la consapevolezza di non sapere cosa succedeva altrove. C’era l’immaginazione, la provincia doveva creare una propria identità per immaginare cosa succedeva fuori. Chi arrivava in città dalla provincia il sabato sera, si riconosceva subito anche da come era vestito. I milanesi ci riconoscevano subito perché noi eravamo quelli sempre con la taglia sbagliata: se volevi il Chiodo, al negoziante ne erano arrivati due, una L e una XL. Se aveva già venduto la L, ti diceva che la XL ti andava bene, bastava metterci un maglione sotto. Così noi di provincia eravamo quelli con il Chiodo troppo grande. In più la provincia creava l’obbligo di coesistenza tra persone diverse. Se eri a Pavia e ascoltavi il punk, al massimo c’erano altre due o tre persone come te e non c’era un locale dove incontrarsi. Il ritrovo era insieme a tutti gli altri, paninari, metallari e vecchi che si bevevano il bianchino. Tutti allo stesso bar. Non potevi rivolgerti alla tua nicchia, dovevi sviluppare un linguaggio che ti permettesse di comunicare con tutti. L’alternativa era che venivi menato… o menavi! Oggi anche chi in provincia rimane comunque connesso con tutte le altre nicchie d’Italia e può creare un punto d’incontro digitale con chi la pensa come lui. All’epoca dovevi fidarti di chi non era come te, ma ti aiutava a non essere dogmatico, a mischiarti. Oggi internet, invece, permette ad una nicchia isolata di comunicare a distanza in luoghi non fisici.

Il tema centrale dell’album è connesso con questo discorso?

Osservare tutto a distanza è qualcosa legato al tempo, non allo spazio. L’allontanamento non è esprimibile in chilometri ma in anni. La relativizzazione delle cose è l’unica cosa positiva dell’età. In 47 anni di vita certi corsi e ricorsi li hai già visti 7/8 volte e così capisci che è un movimento circolare. Se non ci fosse l’esperienza di avere già visto il cambiamento avvenire e poi annullarsi, avvenire e poi annullarsi di nuovo, questa prospettiva non l’avresti. La canzone “Generazioni spiega proprio com’è arrivare in un club senza essere preparato. Io che ero abituato alla discoteca degli anni ’90, all’inizio mi sembrava un inferno in terra! Poi mi sono reso conto che infondo non è cambiato molto: gli atteggiamenti di quei ragazzi e quello che stanno cercando sono le stesse cose che volevi tu. Le generazioni di oggi non sono né meglio, né peggio di noi. Per quelli della mia età il casino era esattamente come oggi. Non c’è unicità nella sofferenza: il nostro disagio l’ha già provato qualcuno e qualcun altro lo proverà di nuovo dopo di noi.

 

Cos’è che aliena i giovani di oggi?

Penso sia più che altro un problema di comunicazione. È come se si fosse demandata la socializzazione a luoghi non fisici: la gente si conosce già prima e si mette d’accordo ancora prima di vedersi. Prima se l’appuntamento era alle 8 al bar e arrivavi tardi, eri fottuto, non avevi idea di dove fossero li altri e arrivavi all’1 di notte senza aver combinato niente.
Oggi i ragazzi arrivano in un posto che hanno già socializzato, arrivati nel club diventa importante solo l’esperienza sensoriale. I luoghi sono diventati posti per consumare beni e servizi e non per parlarsi e raccontarsi del più e del meno. Quello si fa dopo.

Max Pezzali

Max Pezzali

Nel disco c’è una netta maturazione nella scrittura. Sei riuscito a mantenere intatto lo stile ingenuo, passionale e sognatore che ti appartiene dai tempi degli 883, con quello di Max Pezzali uomo adulto e padre?

Penso ci sia un’evoluzione naturale. Mi sono trovato nella condizione di chiedermi che cosa scrivere e se ciò che canto interessa a qualcuno. È la sindrome del foglio bianco, quando vorresti scrivere tutto, poi ti rendi conto che l’unica cosa che sai fare è raccontare quello che conosci, quel tuo centimetro quadrato. Non puoi parlare di tutto, ma solo di ciò che conosci e ti è vicino. E questo sblocca il meccanismo, è la consapevolezza. Raccontare del mio immediato anche a 45/47 anni, non esistono argomenti da giovani o da vecchi, esiste la realtà, qualunque essa sia, ma è la tua che ora riesci a raccontare con la lente della tua età.

 

Hai mai pensato di prendere sotto la tua ala un giovane artista per produrlo e scrivere per lui e tramandare in questo modo lo “stile 883″?

Una volta ho scritto un testo, “100.000 parole d’amore, per un ragazzo di X-FactorDavide Merlini che ora fa musical. Mi piaceva molto l’idea. Sicuramente mi sarebbe più facile scrivere per un ragazzo giovane piuttosto che per uno della mia età o più vecchio. Non riesco ad entrare nell’immaginario di un cantante di mezza età!

Sergio Carnevale (batteria) e Luca Serpenti (basso) fanno parte della tua band. Come influenzano la tua musica?

Loro erano con me in tour già con Max 20. Sergio viene fuori dai Bluvertigo. La band con cui sono in giro penso sia veramente una benedizione di Dio perché oggi c’è bisogno di sonorità di questo tipo per uscire dalla dinamica del concerto scontato con musica perfettamente eseguita, ma priva di anima. Io voglio musicisti che siano anche autori, per perdere qualcosa in tecnica e precisione, ma guadagnare molto di più in impatto emotivo. Voglio comunicare ogni volta qualcosa di diverso. Tutti i musicisti arrivano da scenari diversi e, mettendo insieme queste cose, si riesce ad ottenere un suono moderno e contemporaneo. Già ascoltare un disco dall’inizio alla fine è dura, se poi c’è un suono scontato, roba vecchia… hai già perso la battaglia in partenza..

Il nuovo singolo “Sopravviverai rappresenta il proseguimento naturale di Odiare che hai scritto lo scorso anno per Syria?

Si, è come se lo fosse. Fino ai 35 anni siamo tutti convinti che, quando finisce una storia, non ci si rialza più. Invece ci si rialza sempre. Siamo come delle barche inaffondabili: anche se si ribaltano, tornano sempre dritte. Il vero problema della fine di una storia è l’autocompiacimento. Io non sopporto neanche me stesso quando mi compatisco! Tendo ad avere nostalgia di qualsiasi cosa. Basti pensare che a 27 anni ho scritto Gli anni… di che cosa avevo nostalgia, di quando avevo 15 anni? È un sentimento quasi di maniera, mi piace l’idea di rimpiangere qualcosa, ma devo dirmi “ma vaffanculo! Il continuo torturarsi è la ricerca del compatimento degli altri, mentre la voce razionale nel cervello ci dice di non rompere i coglioni, di smetterla di pensare alle immagini bucoliche del tempo che se ne è andato, la voce razionale ti dice di dormire che domani hai una giornata lunga. E più vai avanti, più la parte cinica diventa enorme e ti dice “ma sei scemo?!

Come stai lavorando al tour, quali canzoni ci saranno?

Dopo le 33 date tutte sold out del tour di due anni fa, mi piacerebbe che venissero rappresentati tutti i successi del passato, ma c’è abbastanza tempo per far ascoltare al pubblico le nuove canzoni. Cercherò di capire quali sono quelle che piacciono di più alla gente per individuare quali sono le 4/6 che si possono fare, ma voglio che il peso maggiore sia dato alle vecchie canzoni. Se fai un tour incentrato sull’album nuovo la gente si rompe le pa**e perché non conosce le canzoni. Non voglio però neanche un tour celebrativo. Voglio evitare il ‘Che pa**e’ e quindi in questi mesi voglio capire quali canzoni piacciono di più alla gente. So che è brutto a dirsi, ma ci sono canzoni che non posso non fare, altrimenti non scendo dal palco vivo. Il concerto è un evento collettivo e le persone vogliono cantare le canzoni che hanno rappresentato una parte della loro vita.

Quali concerti andresti tu oggi a sentire?

Vasco Rossi, Lorenzo Jovanotti negli stadi… mi piacerebbe vedere Nek e Cesare Cremonini.

Tu sei sempre stato molto avanti, la tua attitudine nello scrivere era simile in qualche maniera a quella dei rapper. Nel 2012 hai rifatto il tuo primo disco, Hanno ucciso l’uomo ragno rendendolo attuale nel sound con la collaborazione di diversi elementi della scena rap italiana. E’ un esperimento che avrà un seguito?

Mi piace la contaminazione. Ora è tutto rap + pop, è il momento in cui tutto è featuring di tutti. È la rapper mania senza costrutto, ed è un peccato. Bisognerebbe essere più cauti nelle uscite, perché si arriva facilmente alla saturazione, perché la gente si rompe le palle facilmente. Mi piacerebbe fare un discorso di collaborazione, ma non un featuring. Qualcosa che nasca insieme al rap, al rock indipendente, miscelare musicisti diversi e realtà diverse in un solo album,  ma non è ancora il momento.

Oggi ti senti di più un utente della rete attivo o passivo? E alla fine qual è la soluzione per sopravvivere in questo mondo?

Io sono uno dei primi utenti e sono sempre stato attivissimo nel trovare una connessione con il resto del mondo. Oggi cerco di essere attivo, ma mi sento un po’ come il metallaro… quello che ascoltava metal che scopre che la sua band preferita adesso la ascoltano tutti. Non è più il mio giocattolo! Internet è commerciale e ora mi sta sui coglioni, perché è diventato fruibile anche dai non tecnologicamente alfabetizzati. Cerco di essere critico nei confronti degli strumenti tecnologici: non tutto è figo, utile e divertente. La tecnologia non è solo Facebook e Facebook mi fa letteralmente schifo! Trovo sia un luogo dove la gente scarica addosso agli altri le proprie frustrazioni, c’è un traffico di roba inutile e tutta quella larghezza di banda è occupata da minchiate! Mi piace twitter, perché c’è un limite di caratteri. Ma l’italiano medio non lo ama perché in 140 caratteri non è neanche uscito di casa. Mi piace Instagram perché è una foto e basta. Internet mi piace quando è sintetico e arriva subito.

Quanta rete c’è nel tuo disco?

Non avrei mai potuto fare questo album senza l’utilizzo intenso della rete. Davide preparava le basi e me le mandava, io le cantavo e gliele rimandavo su dropbox. Questa è la figata! Essere liberi di trasmettere le cose. Abbiamo fatto un album in remoto e me ne vanterò sempre. Siamo all’interno di un frullatore mediatico in cui ci vengono fatte credere delle verità preconfezionate e ho paura che seguire troppo le regole e i consigli vengono dati sia una limitazione. Non bisogna credere troppo a quello che ci dicono, nel bene e nel male. Le spiegazioni troppo semplici di solito non sono vere perché la realtà è complessa. Bisogna seguire le proprie attitudini indipendentemente da quello che dicono gli altri. C’è sempre spazio per realizzare la tua strada. Non bisogna credere troppo al buonsenso comune.

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Le date del tour:

25 settembre– Ancona – Palarossini; 26 settembre – Rimini – 105 Stadium; 29 settembre – Mantova – Palabam; 2 ottobre – Firenze – Mandela Forum; 6 ottobre – Livorno – Modigliani Forum; 8 ottobre – Roma – Palalottomatica; 13 ottobre – Perugia – Palaevangelisti; 15 ottobre – Bari – Palaforio; 17 ottobre – Acireale (CT) – Palasport; 20 ottobre – Eboli (SA) – Palasele; 22 ottobre – Bologna – Unipol Arena; 24 ottobre – Torino – Pala Alpitour; 27 ottobre – Genova – 105 Stadium; 29 ottobre – Modena – Palapanini; 31 ottobre – Verona –Palasport; 1 novembre – Trieste – Palatrieste; 6 novembre – Milano – Mediolanum Forum; 7 novembre – Milano – Mediolanum Forum; 9 novembre – Montichiari (BS) – PalaGeorge; 12 novembre – Conegliano (TV) – Zoppas Arena; 15 novembre – Padova – Palafabris.

Raffaella Sbrescia