Invers: “In Montagne vi spieghiamo che la resa sta alla radice di una svolta”

Montagne

Gli Invers sono una band originaria di Biella  con una formula musicale a cavallo tra rock e cantautorato. La potenza delle melodie proposte da questi 4 musicisti italiani si sposa con la forza emotiva dei testi proposti al pubblico. Con un gran numero di concerti all’attivo e due Ep pubblicati negli scorsi anni, la band presenta un nuovo singolo intitolato “Montagne”, scelto per anticipare il nuovo atteso album “Dellʼamore, della morte, della vita” che sarà pubblicato ad inizio 2015. Registrato e mixato al MoscowMule Studio (Biella) da VinaBros, il singolo è stato masterizzato al The Exchange (Londra) da Mike Marsh (Franz Ferdinand, Kasabian, Savages).  In questa intervista  Marco B. / Mattia I. / Enrico B. / Mirko L. ci raccontano nello specifico la trama dell’inedito pubblicato lo scorso 17 ottobre, anticipando alcuni gustosi dettagli relativi al lavoro discografico in uscita nei prossimi mesi.

 

Alla luce dei vostri lavori precedenti e di quello a cui state lavorando oggi… chi sono gli Invers?

Quando ci si guarda in faccia, vedendosi ogni giorno, ci si dice che si è sempre uguali, ma sappiamo tutti che la realtà è diversa. Per noi questo è vero in parte, perchè se musicalmente dobbiamo riconoscere e quindi dire di essere cambiati, o meglio di aver intrapreso un percorso in cui ci sentiamo più liberi e forse anche cresciuti e consapevoli, dal lato personale siamo fondamentalmente i soliti quattro di sempre, ognuno con i propri gusti, le proprie idee, i propri modi di fare, costantemente in contrasto con quelli degli altri, che tra un confronto e l’altro riescono sempre a trovare un modo per andare d’accordo. Quattro amici, di cui due fratelli, e gli altri due praticamente fratelli acquisiti.

Avete definito il singolo “Montagne” un brano potente, serrato ed ossessivo…  come motivereste la scelta di questi aggettivi e come spieghereste il senso di questa canzone?

Partendo dall’idea primordiale del pezzo, passando attraverso il suo sviluppo e arrivando alla versione definitiva del brano, questi tre aggettivi sono rimasti intatti, dall’energia messa nelle prime prove alle sensazioni percepite ascoltando il risultato finale in studio. Il testo del brano descrive la condizione di inadeguatezza in cui si trova chi non si riconosce più in quello che vede, che fa, che vive, e solo dopo aver preso atto dell’immutabilità di tale condizione, riconosce che l’unica cosa da fare è arrendersi ad essa. La parte musicale è potente, ipnotica, quasi una cantilena tagliente proprio perchè ossessiva, serrata, a sostenere e rafforzare il senso di costrizione descritto dalle parole.

Invers

Invers

Quali saranno i temi, le storie, i personaggi e le scelte musicali che verranno incluse in “Dell’amore, della morte, della vita”?

I tre concetti che regalano il titolo al nostro secondo album sono i temi portanti di ognuna delle canzoni che compongo il disco. Alle volte uno solo, altre volte due, oppure tutti e tre nello stesso brano, sono l’amore, la morte e la vita i “personaggi” in scena in questo nuovo lavoro, che vengono riflessi attraverso storie di persone vicine e lontane, unite e divise, presenti e passate. Tutto ciò è avvolto da una componente musicale decisamente più dinamica rispetto al nostro precedente lavoro, volta a trasmettere nel modo più efficace e profondo possibile il significato e l’atmosfera di ogni brano.

Cosa vi hanno insegnato i tanti concerti che avete tenuto negli scorsi mesi in tutta Italia e cosa amate di più dell’interazione con il pubblico?

Sicuramente abbiamo capito che, nonostante i chilometri, gli imprevisti, le dimenticanze, i ritardi, le ore di sonno mancate, e tutti gli altri accessori inclusi, suonare è quello che vogliamo fare, ad ogni costo, cercando di arrivare a più timpani e cervelli e cuori possibili, per trasmettere la nostra visione e la nostra idea, per poterla mettere nelle mani di altre persone e vedere che effetto fa loro, se la giudicheranno, l’apprezzeranno o la demoliranno, avremo comunque raggiunto l’obiettivo più importante: condividere quel che siamo e facciamo con chi è lì con noi in quel momento.

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Se doveste spiegare la vostra musica a chi non vi conosce, quali parole usereste?

Ci piace usare una frase breve ma significativa per presentare quello che facciamo, ovvero “musica potente con testi particolarmente vicini al cantautorato italiano”, che di fatto descrive molto bene quello che siamo musicalmente parlando, sia sul palco che in studio. Tuttavia non si tratta solamente di una personale presentazione del nostro lavoro, è anche e soprattutto l’idea che abbiamo in testa, che vogliamo realizzare, e il modo in cui sentiamo di doverla esprimere.

La “resa” può rappresentare una svolta esistenziale?

Senza ombra di dubbio la resa sta alla radice di una svolta.Che sia per scelta o per forza, si arriva alla resa dopo un’ attenta analisi della situazione che causa malessere, e solo dopo aver raggiunto una posizione oggettiva rispetto ad essa, si può essere in grado di prendere la decisione di non curarsene più, e quindi lasciare perdere. La resa come atto supremo di presa di coscienza fa da spartiacque tra quello che è stato e quello che sarà, istruendoci su un nuovo e più lucido approccio nella visione della realtà.

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Dove e quando vi esibirete dal vivo?

Da qui alla fine dell’anno porteremo in giro una sorta di anteprima live completa dei brani che comporranno “Dell’amore, della morte della vita”, in attesa della sua pubblicazione ufficiale, nei primi mesi del 2015. Più precisamente, chiunque vorrà ascoltare il nuovo disco, potrà trovarci venerdì 24 ottobre alla Cooperativa Portalupi di Vigevano, sabato 1 novembre al Circolino Porta Torino di Vercelli, mercoledì 12 a Bologna, al Làbas occupato e sabato 22 al Kantiere di Verbania. Per quanto riguarda dicembre, invece, saremo dapprima il 13 a Torino, al Magazzino sul Po, e poi sabato 20 all’Otto di Biella, vicino a casa, giusto in tempo per prepararsi per un nuovo anno, un nuovo disco, una nuova vita.

Raffaella Sbrescia

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Kiesza: la recensione di “Sound of a woman”

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Ha conquistato le classifiche mondiali con la coinvolgente freschezza della super hit “Hideaway”, ora l’attrice e cantante canadese Kiesza è pronta per compiere il grande passo con il primo full lenght intitolato “Sound of a Woman”, un lavoro discografico eterogeneo, carico di contenuti e di sfaccettature sonore. Composto da ben 14 tracce, “Sound of a woman” si presta ad un ascolto leggero spaziando dal pop, alla dance, alla deep house, all’r’n’b.  Fresca, vitale, carismatica Kiesza sfrutta la potenza della propria vocalità limpida e trasparente offrendo un’ampia rappresentazione  di uno spettro vocale in grado muoversi nel tempo e nello spazio. Contenuti, melodie e ritmi si fondono in una miscela energica ed inebriante, adatta ai più disparati contesti.

Kiesza_Photo_Hideaway_300CMYK_foto di Meredith Truax

Ad aprire l’album è la già citata “Hideaway”, seguita da “No Enemiesz” un brano adrenalinico e stimolante. Ben diverso è, invece, il mood di “Losin’My Mind” in cui l’intro a cappella fa da apripista alle calde sonorità black del nucleo centrale del brano.  Calda, carezzevole e potente è la voce di Kiesza in “So Deep”mentre il flow  intrigante e misterioso di “Bad thing” lascia inaspettatamente il passo ad una riuscitissima cover di “What is love”, il grande successo targato anni ’90 di Haddaway, opportunamente trasformato in una  coinvolgente ballata pop . L’impulsiva e vitale creatività della title track “Sound of a woman” si sposa alla perfezione con il mood impattante di “The love” e di “Giant in my Heart”, arricchiti da ampie parentesi in cassa dritta 4/4.

Kiesza Ph Renee Cox

Kiesza Ph Renee Cox

La vera sorpresa dell’album è il brano di chiusura  “Cut me Loose”: piano e voce deliziano l’animo e l’orecchio con l’amore dichiaratamente in primo piano. Scritto nella sua quasi totalità a quattro mani con il producer Rami Samir Afuni, con le collaborazioni di Mick Jenkins e Joey Badass, “Sound of a woman” si muove, dunque, in maniera disinvolta tra nuovi e differenziati scenari musicali mettendo in luce la padronanza vocale e la versatilità artistica di Kiesza.

Raffaella Sbrescia

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Video: “Hideaway”

Lavinia Mancusi trio in concerto al Caffè Letterario Intra Moenia: l’incanto del Mediterraneo

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettonr

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

Il Caffè letterario Intra Moenia della storica Piazza Bellini a Napoli ha ospitato l’atteso concerto della cantante e musicista Lavinia Mancusi, accompagnata da Gabriele Gagliarini (cajon, darabuka, djembé, tamburi a cornice) e Riccardo Medile (chitarra classica,liuto spagnolo, oud). Tenutosi nella rigogliosa veranda del locale, lo scorso 22 ottobre, il live ha rappresentato un’ottima occasione di avvicinamento e conoscenza del ricco e variegato repertorio proposto dall’eclettica artista romana.

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

Proponendo al pubblico le suggestive melodie del recente album intitolato “Semilla”, Lavinia ed i suoi abili musicisti hanno inteso rendere omaggio alle musiche, alla storia, e al naturale fascino del Bacino del Mar Mediterraneo. Vento, acqua, terra, fuoco sono, invece, gli elementi chiave per interpretare le sfumature del calderone di storie che, i tre artisti hanno raccontato cullando i ricordi e le speranze di ciascuno. Un caldo incontro tra note, storia, cultura e musica per riabbracciare le antiche origini con classe e ricercata eleganza.

Fotogallery a cura di: Luigi Maffettone

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

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Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

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Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

 

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

 

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

 

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

Lavinia Mancusi trio @ Intra Moenia Ph Luigi Maffettone

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Classifica FIMI: U2, Conte, Fedez i più venduti in Italia

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La classifica FIMI/GFK degli album più venduti della settimana in Italia si apre con due importanti new entries: al primo posto ci sono gli U2 con “Songs of Innocence”, seguiti da “Snob”, il nuovo album di Paolo Conte. Sull’ultimo gradino del podio c’è Fedez con “Pop-Hoolista” mentre il trio Fabi-Silvestri-Gazzè si piazza in quarta posizione con “Il padrone della festa”. L’altra novità della settimana è “Ora” di Gigi D’Alessio, in quinta posizione davanti a “Senza Paura” di Giorgia. I Subsonica scendono al settimo posto con “Una nave in una foresta” mentre Francesco Renga resiste in ottava posizione con “Tempo Reale”. Al nono posto troviamo Chiara Galiazzo con il nuovo album intitolato “Un giorno di sole” mentre i Modà chiudono la top ten con “Gioia. Non è mai abbastanza”.

“Tie me down”, il nuovo ep di Jack Savoretti

Jack-Savoretti Ph Chris Faith

Jack-Savoretti Ph Chris Faith

“Tie me down” è il nuovo ep del cantautore londinese Jack Savoretti. I quattro brani che compongono questo nuovo lavoro annunciano una nuova evoluzione nella carriera dell’artista ed anticipano la pubblicazione di nuovo album, la cui è uscita è prevista per il 2015. L’ep, scritto insieme al produttore Matty Benbrook, intende mettere in luce la nuova direzione che il cantautore ha intrapreso e la sua nuova attenzione per nuovi ritmi e nuovi filoni musicali. Particolarmente intensa la title track “Tie me down”:“No man was born to be locked up,  No man is born to not be free. We’re here to live, we’re here to love. We’re here to touch, feel & see”, canta Jack, ipnotizzando l’ascoltare con la sua vocalità calda, graffiata e sensuale. Luoghi, colori, sapori, emozioni e sofferenze emergono attraverso la carica emotiva insita nella capacità interpretativa di Savoretti. Un riff insistente di chitarra acustica, una linea di basso tribale ed un groove di batteria incalzante lasciano spazio al mood decisamente più intimo e sofferto di “Last beat”, una struggente ballad amorosa perfetta per incarnare l’idea di un sentimento intenso e profondo al punto da risultare quasi distruttivo. Il fascino della melodia si avvicina a quello immaginifico di una tipica colonna sonora da film strappalacrime. Lo struggimento continua anche in “Jackie Blue”: sudore e polvere si intrecciano tra nuove strade e vecchi ricordi mentre  Jack abbraccia il suo ruolo di folksinger in maniera assoluta e totale. Questo piccolo e prezioso ep si chiude con “Solitude”, un brano che non si distanzia dai contenuti precedenti e che, anzi, sancisce con risoluta efficacia il mood malinconico ed intimista con cui Jack riesce a raccontare scelte, rimorsi e rimpianti che, pur riguardando un eventuale passato, coinvolgono anche e soprattutto il presente.  Per concludere, considerando gli ottimi presupposti di partenza, sarà interessante scoprire se Jack Savoretti seguirà questa scia contenutistica nel nuovo album o se, invece,  vorrà stupire il pubblico con nuovi contenuti e nuove scelte sonore.

Raffaella Sbrescia

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Video: “Tie me down”

Earth Hotel, il nuovo album di Paolo Benvegnù. La recensione

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Una struttura ermetica e complessa attraversa “Earth Hotel”, il nuovo album di inediti firmato dal ottimo Paolo Benvegnù, pubblicato il 17 ottobre da Woodworm e distribuito da Audioglobe. A tre anni di distanza da “Hermann”, il cantautore attraversa le fasi del vivere umano contemporaneo attraverso 12 canzoni, metaforicamente associate a 12 piani di un posto che, per antonomasia, esprime l’idea di passaggio. Intrigante e destabilizzante al contempo “Heart hotel” rappresenta un non-luogo da cui osservare il mondo da vicino, pur rimanendo comodamente nella propria stanza. La solitudine rappresenta, infatti, un tema molto caro a Benvegnù, cantore di un mondo silenzioso eppure traboccante di pensieri e di emozioni descritte in maniera ermeticamente concettuale. La cura per i dettagli sia dei testi, che degli arrangiamenti, rende “Earth Hotel” un lavoro destinato a spiriti sensibili ed ad intelletti particolarmente sviluppati. La ricerca dell’equilibrio tra materia e forma, tra arte e sentimenti ha condotto Benvegnù a compiere un percorso complesso, spesso difficile da comprendere ed interpretare con lucida completezza. La prima traccia che l’artista propone all’ascoltatore è “Nello spazio profondo”, l’enigmatica ed impalpabile descrizione di un’illusione sentimentale. “Le parole sono pietre ambiziose”, canta Benvegnù, tra arpeggi di chitarra e volute di sintetizzatore. Appassionata e suadente è la trama di “Una nuova innocenza”, un brano dal fascino perturbante, addolcito dal fortunatissimo inserimento degli archi tra le sonorità profonde delle chitarre e delle tastiere. Carne e sangue sono gli elementi tangibili di questa potente mistura di parole e note.

Paolo Benvegnù

Paolo Benvegnù

L’amore e le sue molteplici declinazioni collegano gli intricati passaggi di  “Earth Hotel”: si passa repentinamente tra contrasti di chiaro/scuro, pieno/vuoto, presenza/assenza, passando attraverso i contrappunti affilati del violino e degli archi. La ricerca di un nuovo ordine del caos attraversa “Nuovosonettomaoista” mentre il surreale fascino e la suadente lunghezza di “Avenida Silencio” traghettano l’ascoltatore all’interno di imprevedibili  e cosmopolite dimensioni spazio-temporali . La delicatezza della ballad acustica intitolata “Life” si contrappone alla durezza semantica di “Feed the distruction” mentre la bellezza immaginifica di “Stefan  Zweig” incarna la perenne sete dell’animo umano, condannato all’insoddisfazione eterna. “Tutto ci parla senza farsi vedere”, così Paolo Benvegnù descrive in maniera minimalista eppure lucida il nostro tempo in “Divisionisti” mentre le domande senza riposta di “Orlando” si disintegrano negli anatemi contenuti in “Piccola pornografia umana”. I toni e le atmosfere si addolciscono con il sopraggiungere di “Hannah”, un’altra ballad ammorbidita dal carezzevole fascino delle corde arpeggiate. A chiudere l’album è il brano intitolato “Sempiterni sguardi e primati”: “verrà un tempo per la verità, per la gioia, per la solitudine, per la noia”, canta Benvegnù, rilanciando fino alla fine  l’insita bellezza del nichilismo improntato alla ricerca del profondo senso dell’esistenza umana.

Raffaella Sbrescia

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Video: “Una nuova innocenza”

Intervista a Piero Fabrizi: “Primula? Un disco spontaneo e libero”

Piero Fabrizi

Piero Fabrizi

Musicista, compositore, produttore e arrangiatore, Piero Fabrizi è attivo nel panorama musicale italiano sin dal 1980. Dopo aver prodotto, nell’arco di 23 anni, 14 album e due DVD della cantante romana Fiorella Mannoia, nel 2002 Piero Fabrizi ha fondato l’etichetta discografica indipendente Brave Art Records, con la quale realizza progetti dedicati alla musica strumentale. Lo scorso settembre il chitarrista e produttore romano ha deciso di pubblicare “Primula” (un album d’esordio arrivato dopo una lunga carriera e oltre cento dischi), per raccontarsi senza limiti. In questa intervista, l’artista si è raccontato a 360 gradi dedicando un ampio approfondimento non solo a questo lavoro ricco di prestigiose collaborazioni, ma anche alla situazione generale del contesto musicale contemporaneo, offrendo numerosi spunti di riflessione.

Nel corso della tua carriera, iniziata nel 1980, hai ricoperto il ruolo di produttore, chitarrista, autore lavorando alla realizzazione di più di cento album. Quale di queste vesti senti più tua e perché? Come cambia il tuo ruolo a seconda della funzione che svolgi?

Mi sento soprattutto un musicista, la produzione è uno dei lati del mio fare musica, forse il più coinvolgente lavorativamente parlando, molto simile al ruolo di un regista nel cinema, una figura di riferimento che può realmente affiancare un’artista dall’inizio alla fine di un progetto, una figura importante in America o in Inghilterra, in Brasile perfino…un po’ meno da noi, dove il produttore è visto come colui che realizza un disco e lo consegna all’artista o alla casa discografica. In realtà, a mio avviso, non è questa la funzione fondamentale del produttore. La produzione parte a monte, con la scelta delle canzoni, interpretando al meglio l’orientamento dell’artista, aiutandolo il più delle volte a cercare il percorso ideale per esprimersi al meglio, attraverso le canzoni migliori, con quel filo di distacco che l’artista non potrebbe mantenere fino in fondo, nei confronti del proprio materiale. Il produttore è il vero alter ego dell’artista, colui che vede oltre e coadiuva nelle scelte importanti, con chiarezza e determinazione, fuori da ogni logica che non sia prettamente artistica. In tutto questo, il suonare, comporre e arrangiare, diventano elementi indispensabili per comunicare con il giusto linguaggio e per veicolare al meglio l’emozione trasmessa dall’artista nelle sue interpretazioni. Il rispetto della personalità artistica, unito al senso critico, alla creatività e ad una visione d’insieme, fanno di un musicista, chitarrista e autore… un buon produttore.

Hai lavorato per tantissimi anni con Fiorella Mannoia… ci racconti come hai vissuto questa speciale sintonia artistica con lei e come l’avete alimentata nel corso degli anni?

Lavorare per oltre 23 anni con Fiorella Mannoia è stato relativamente facile perché ci ha uniti la profonda passione e l’altrettanta sintonia, su tutto ciò che abbiamo deciso di fare, ma soprattutto, direi, la stima reciproca, che sancisce sempre le unioni creative e umane. L’essere due persone molto diverse – ma con grandi affinità – ha sicuramente arricchito ed alimentato per molto tempo il nostro rapport rendendolo molto speciale.

Nel tuo album d’esordio hai racchiuso i tuoi riferimenti musicali, i tuoi sogni di una vita e gli hai dato forma insieme ad alcuni nomi di spicco della scena musicale internazionale come Chico Cèsar, Tony Levin, Jacques Morelenbaum, Morneo Veloso, David Binney, Mauro Pagani, Maurizio Giammarco… Quando e perché ti è venuta voglia di lavorare ad un progetto tuo? Qual è stato l’elemento scatenante e quali sono le storie, i messaggi e le prospettive di questo lavoro così eterogeneo?

Era da tempo che sentivo l’esigenza di avventurarmi in qualcosa di personale e specifico come la progettazione di un mio album. In verità la musica ha preso il sopravvento sulla razionalità, nel senso che ho iniziato a registrare un paio di brani che avevo provato insieme al mio caro amico e mirabile batterista Elio Rivagli. Abbiamo improntato un ensemble molto scarno: chitarra elettrica, batteria acustica e percussioni elettroniche per appuntare delle idee ritmiche. Da lì a breve ci siamo ritrovati in studio con Dario Deidda al basso elettrico per registrare la prima traccia dell’album che dà il titolo a tutto il lavoro: “Primula”. Sono molti i momenti da ricordare, legati alle registrazioni del disco: ho ripreso gran parte delle sessioni in studio e vorrei riuscire a farne una sorta di “making of”, cosa sempre interessante dal punto di vista dell’ascoltatore che, in questo modo, può avere la possibilità di cogliere una maggiore “umanizzazione” dell’importante, (ma a volte oscuro) lavoro svolto in studio di registrazione. Non ci sono messaggi in questo mio lavoro, direi, piuttosto un pensiero costante: fare musica in piena libertà. Questo è il vero e unico intento, che io, insieme ai musicisti che hanno partecipato alle registrazioni, abbiamo perseguito fino in fondo. Ora c’è la voglia di portare questo progetto ambizioso fuori dallo studio, suonare dal vivo è il mio vero obiettivo, il più naturale e consequenziale, certo, ma anche il più gratificante.

Piero Fabrizi ph G. Canitano

Piero Fabrizi ph G. Canitano

Non solo musica ma anche solidarietà, con questo album sostieni la Onlus fondata da Barbara Olivi “Il sorriso dei miei bimbi”. Di cosa si occupa questo ente e in che modo il tuo album intende sostenerne i progetti?

Il lavoro svolto da Barbara Olivi e dagli altri volontari è proteso soprattutto alla scolarizzazione dei bambini (ma anche dei più adulti) in una realtà molto dura qual è la favela di Rocinha a Rio de Janeiro, (la più grande favela di tutto il Sud America),  dove il degrado è visibile e tangibile ad ogni angolo, e dove i ragazzi vengono continuamente a contatto con tutto ciò che di più dannoso e deleterio si possa immaginare in un “inter regno” costituito e gestito da spacciatori senza scrupoli, armati fino ai denti, impegnati in continue lotte intestine, feroci e sanguinose, per il controllo del territorio della favela. L’associazione di Barbara e compagni, garantisce per alcune ore giornaliere un cuscinetto ideale, per poter dare spazio e aree di pace e di aggregazione, gestite da insegnanti qualificati e psicologi, i quali si preoccupano del benessere dei bambini/ragazzi che aderiscono al progetto. Oltre alla scuola, ci sono corsi di danza, uso del computer, ginnastica e perfino un corso di botanica. La Onlus è una realtà che va sostenuta e difesa, questi volontari hanno cuore e coraggio da vendere!

Tu sei il fondatore della “Brave Art Records”, un’etichetta che si dedica alla musica strumentale. Come ti muovi all’interno del contesto contemporaneo italiano? Quali sono i filoni che ritieni interessanti? Cosa dovremmo assolutamente ascoltare in questo periodo secondo te?

Il contesto contemporaneo in Italia non consente ottimismi di nessun genere, resiste la passione e la caparbietà di molti di noi che, nonostante la totale assenza di un vero mercato discografico, continuano a pensare alla musica come un’idea più alta, un modo di pensare e di vivere che coinvolge e accomuna. Ritengo che tutto sia cambiato radicalmente con l’avvento di internet e della rete, si deve convivere con una maggiore promiscuità musicale e un minore talento creativo, c’è molta più offerta che richiesta di musica, ci sono molti più performers che compositori, i veri artisti sono addirittura difficili da scovare, dietro questa cortina fumogena formata da orde di prodotti e sottoprodotti musicali…difficile, orientarsi (da parte del consumatore) verso un prodotto qualitativamente alto. Gli stessi format televisivi (X-factor, The voice, ecc..) sono, a mio avviso, fuorvianti ed inefficaci, se pensati con la prospettiva di far ripartire un settore, ormai in caduta libera. Ci vorrebbe onestà e rigore per riuscire a ridare valore e vigore  alla musica italiana. La mia etichetta Brave Art Records, così come anche la Route 61 music, si impegnano a cercare di dare voce alle cose di qualità, qualunque sia la direzione e la tendenza espressa nei dischi prodotti, che vengono scelti esclusivamente sulla base di una proposta qualitativa alta. Se posso consigliare l’ascolto di un disco italiano, consiglierei sicuramente il disco di Tosca – “Il suono della voce”,  un lavoro di grande classe, che alza di netto il livello degli album usciti in questo 2014 in Italia.

Come nasce il passionale intreccio di corde e di pelli vibranti de “La Mirada del Che”? ( Bellissimo il solo di Mauro Pagani al violino… intenso, drammatico e straziante!)

Il brano mi è stato ispirato dalla lettura di una bella biografia di Ernesto Che Guevara, scritta dal francese Pierre Kalfon. Mi hanno colpito soprattutto gli appunti personali del Che e la drammatica imboscata che gli fu fatale a la Higuera in Bolivia, il pezzo vuole descrivere emozionalmente l’atto conclusivo della vita di Guevara. Il bellissimo solo di Mauro Pagani credo racchiuda in sè tutta la drammaticità e la tensione di quel momento, trovo che l’intervento di Mauro sia davvero eccezionale, egli è riuscito ad  interpretare alla perfezione l’andamento e l’intensità del brano. Lo considero un generoso regalo, fattomi da uno dei migliori musicisti italiani.

E la dedica ai “Meninos da rua” in “Clandestino”?

Questo è un brano che da sempre avrei voluto tradurre e riarrangiare e l’occasione di poterlo realizzare su un mio disco non poteva andare sprecata. Chico Cèsar ha scritto questo pezzo venti anni fa, e oggi più che mai,  le sue note e le sue parole risuonano attuali, inneggiando al senso di libertà e fratellanza che lega e unisce questi figli della strada. Chi ha visto e conosce questa dura realtà brasiliana può apprezzare ancora meglio il senso di questa canzone, che è al contempo dura denuncia e accattivante filastrocca. Quando mandai a Chico la mia versione, lui mi scrisse subito, proponendomi di cantare il pezzo insieme a lui, inutile dire che questa collaborazione è motivo di grande orgoglio per me.

Piero Fabrizi

Piero Fabrizi

La title track rappresenta davvero il punto di partenza di questo tuo progetto?

Si, “Primula” è stato il primo pezzo registrato (con Elio Rivalgi alla Batteria e Dario Deidda al Basso elettrico) e da qui il titolo emblematico del brano. Qualcosa che nasce in maniera spontanea e inattesa.

Come hai scoperto la meravigliosa voce di Elsa Lisa, che hai poi inserito in “Buzet Me Ishin Thare” ed in “Qan Lu Lja per Lulen”? Di cosa parlano questi brani così delicati e magici?

Elsa Lila è una cantante albanese di grande talento, ritengo che la sua voce sia oggettivamente una delle più belle al mondo. Il suo timbro è unico e la sua vocalità riesce a toccare corde emozionali profonde, con eleganza e sobrietà. Quelle cantate da Elsa, sono due canzoni d’amore…”Quan lulia per lulen” è un canto popolare, il cui titolo tradotto  dall’albanese è: “Piange il fiore per il fiore”, ovvero il canto di addio di un padre ad una figlia che va in sposa ad un giovane, il quale la porterà via per sempre dalla casa dei genitori, dai suoi affetti, dalla sua infanzia. Il pezzo è stato totalmente rielaborato e riarrangiato da Elsa Lila e da me per cercare di realizzarne una versione più internazionale, meno legata alla scrittura tradizionale del brano. Melodicamente e armonicamente la nostra versione è molto diversa dall’originale. Questo, comunque, è, in assoluto, uno dei miei pezzi preferiti dell’album.

L’estrema varietà del disco è confermata dalla presenza di “Uncle Frank”, il tuo tributo a Frank Zappa, dalla scelta di chiamare dei musicisti brasiliani ad interpretare “Kashmir”, dall’autentico blues di “Jff”…cosa ti ha spinto ad agire con tutta questa libertà?

La naturale propensione a fare soltanto ciò che mi piace è stata la vera costante che ha pervaso le registrazioni dell’intero album. Ho sempre pensato al fatto che ci fossero troppi luoghi comuni da sfatare (ad esempio) riguardo ai musicisti brasiliani. Ho voluto dimostrare che una band composta all’80% da musicisti brasiliani, potesse suonare in modo magistrale un classico del rock come “Kashmir”. Joao Viana (figlio di Djavan) è un batterista rock eccezionale e Jaques Morelenbaum, si è prestato a sottolineare i riff storici del brano con il suo violoncello. Il mio tributo a Zappa è nato dal cuore; la sua musica mi ha sempre affascinato. “Uncle Frank” è una dichiarazione d’amore dedicata al genio iconoclasta del rock. L’arrangiamento dei fiati, ad opera di Maurizio Giammarco, è in perfetto stile zappiano mentre il solo al violoncello, suonato da Jaques Morelenbaum, è una vera perla.

Il brano conclusivo del disco è “Now that you’re gone” un brano che hai scritto pensando a Michael Mc Donald. Se avessi la possibilità di incontrarlo come gli descriveresti questa canzone?

Si tratta di una canzone d’amore molto semplice. La musica non si descrive, si suona e si ascolta! Oltre la morbida voce soul di Lily Latuheru, c’è il notevole apporto sonoro di Tony Levin che sorregge con il suo riff di basso l’intero brano, insieme ad Elio Rivagli alla batteria. Gli archi dal malinconico sapore retrò – scritti e diretti da Maurizio Abeni – rappresentano l’ideale chiusura di questo viaggio personale, attraverso musiche e stili diversi.

Quali saranno i progetti collegati a questo nuovo album e quali, invece, quelli inerenti alla tua carriera da musicista e produttore?

Ho intenzione di fare una serie di concerti per portare dal vivo la musica di “Primula”. Parallelamente ho un paio di progetti, molto interessanti, da produrre nel corso dei prossimi mesi; si tratta di due cose molto diverse tra loro ma entrambe di grande spessore.

Raffaella Sbrescia

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Dear Jack in concerto a Napoli: una band che lascia il segno

Dear Jack @ Palapartenope Ph Luigi Maffettone

Dear Jack @ Palapartenope Ph Luigi Maffettone

Idoli dei giovanissimi, super trasmessi dalle radio e dai canali musicali italiani, i Dear Jack, scoperti dal “re Mida”della tv, Maria De Filippi, hanno dato il via alla loro prima tournée di concerti  sulla scia del grande successo riscontrato dal debut album intitolato “Domani è un altro film – prima parte”. Dopo la prima infarinatura di Forlì e di Roma, i Dear Jack si sono esibiti in concerto al Teatro Palapartenope di Napoli mandando in visibilio migliaia di giovanissimi/e fans. Vista la brevità del loro percorso artistico, Alessio Bernabei e soci hanno scelto di intervallare i loro inediti con una serie di cover, opportunamente rivisitate. Sorprendente la scelta de “L’anima vola”, grande successo contenuto nell’omonimo ed apprezzatissimo album di Elisa. I Dear Jack spiazzano e destabilizzano il pubblico attraverso continui saliscendi tra generi e rimandi musicali: si va da “Beat it” di Michael Jackson a “Demons” degli Imagine Dragons, da “Wonderwall” degli Oasis a “She will be loved” dei Maroon 5, passando per “Solo” di Baglioni, “Pensiero” dei Pooh, “Arrivederci” dell’indimenticabile Umberto Bindi.

Dear Jack @ Palapartenope Ph Luigi Maffettone

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Un puzzle di note e parole che intende rispecchiare i gusti musicali e le influenze del gruppo che, pur essendo molto acerbo, dimostra di possedere una buona dose di carattere e personalità nello scegliere di proporre al pubblico un repertorio variegato e non necessariamente modaiolo. A surriscaldare gli animi del pubblico sono le hits, riproposte anche nei bis, “La pioggia è uno stato d’animo” e “Ricomincio da me”, due brani che, grazie ad una rotazione radiofonica e televisiva davvero incalzante, sono riusciti ad entrare nelle grazie della fascia di ascolto popolare. Guardando i presupposti da cui partono, i Dear Jack sembrano possedere le carte in regola per affermarsi all’interno dello scenario musicale italiano e nulla esclude che possano prossimamente presentarsi sul palco del Festival di Sanremo; se così fosse, sarà interessante capire in che modo essi sceglieranno di proseguire il proprio cammino musicale.

Fotogallery a cura di: Luigi Maffettone

Dear Jack @ Palapartenope Ph Luigi Maffettone

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Intervista a Moni Ovadia: “L’accoglienza dell’altro rappresenta la benedizione per il futuro”.

Moni Ovadia

Moni Ovadia

Il Forum delle Culture ospiterà “Senza confini. Ebrei e zingari”, il nuovo spettacolo dell’attore teatrale, drammaturgo, scrittore e cantante Moni Ovadia, considerato uno dei massimi esponenti della cultura occidentale nel Mondo. All’interno del Festival intitolato “In diverso canto”, in programma alla Mostra d’Oltremare di Napoli, il recital intende rappresentare una preziosa occasione di lotta al razzismo. In questa intervista, Moni Ovadia ha approfondito diversi aspetti legati sia alla sua prestigiosa carriera che alla sua filosofia di pensiero, su tutti la definizione di dignità.

Qualche giorno fa Lei ha tenuto una lectio magistralis presso il Museo della Scienza di Milano sul tema della dignità. Cosa ha spiegato agli studenti che l’hanno ascoltata e con quali parole definirebbe questo concetto tanto delicato?

Ho fatto un discorso articolato cercando di trattare diversi aspetti di una questione che in Italia non è stata dibattuta come, ad esempio, lo è stata in Germania. La definizione a mio parere più sintetica e folgorante appartiene allo scrittore premio Nobel Josè Saramago, che ha scritto questa cosa quando era in prigionia durante la dittatura fascista: “…non ci dicano com’è la dignità perché lo sappiamo già perché,  perfino quando sembrava non fosse altro che una parola, noi comprendevamo che si trattava della pura essenza della libertà nel suo senso più profondo. Quello che ci permette di dire, contro l’evidenza stessa dei fatti, che eravamo prigionieri eppure eravamo liberi”. Sono dunque partito da questa definizione articolando un’argomentazione ampia, una riflessione che si è concentrata sullo statuto dei diritti, soprattutto quelli sociali. In verità la dignità stessa precede i diritti. La dignità è qualcosa che l’essere umano sente prima dello Statuto di legge, lo sente in sé come assoluto, si tratta di una condizione assoluta a cui l’uomo ha di natura i requisiti per accedervi. Nel monoteismo abramitico la dignità si pronuncia con un termine che significa “onore a me stesso”, non a caso questo concetto viene espresso attraverso il fatto che ognuno è formato sull’impronta di Dio, contiene in sé una dimensione assoluta, quindi inviolabile. In Germania, dopo il nazismo, i padri costituenti tedeschi hanno capito e hanno messo la dignità in testa alla costituzione in modo assiomatico: “La dignità umana è intangibile”, “tutti gli organi dello stato devono garantire l’intangibilità della dignità umana”. Quando togli la dignità ad un uomo, lo riduci alla pura sopravvivenza, quindi ammazzarlo diventa solo un dettaglio.

Lei è il protagonista di un corto didattico sul rispetto della natura e lo sviluppo eco-compatibile . Di cosa narra questo lavoro, da chi è stato realizzato, con quali obiettivi e qual è stato il suo ruolo attivo in questo progetto?

Si tratta di un progetto molto divertente, pensato per i più piccoli, in cui interpreto la parte del professor Ottusus. In questo corto si immagina un mondo del futuro in cui non esiste più la natura, cancellata da macchine e bolle piene d’aria, perché ingombrante. Attraverso questo paradosso, Elisa Savi, ideatrice del progetto, mi cala nei panni di Ottusus per spiegare ai bambini l’evoluzione dei fatti. Essi, nella loro freschezza, rimangono stupiti dalla bellezza della natura, ormai concentrata nei musei, come un reperto del passato. Quando, infine, Ottusu fa scoprire loro un posto segreto in cui sono conservate tutte le semenze, essi riescono a rubarne qualcuna per piantare le prime piantine e restituire un futuro alla natura.

Ci parla dello spettacolo “Cabaret Yiddish”e di come esso si è evoluto nel corso degli anni?

Il mio spettacolo si è evoluto naturalmente, acquisendo nuove dinamiche, nuovi musicisti etc…Ora, per esempio, si è aggiunto un musicista rom ed è tornato il primo violinista, a questo aggiungo che il mio modo di raccontare si è arricchito grazie alla gavetta fatta e all’evoluzione del rapporto con il pubblico.  Questo è uno spettacolo che continua ad essere magicamente richiesto ed ha un clamoroso successo che stupisce anche me. Il suo segreto sta nel fascino delle prime forme di espressione teatrale in cui i commedianti arrivavano su un carro e allestivano lo spettacolo con pochi strumenti per raccontare il mondo al pubblico. Io, con questo spettacolo, sono riuscito a portare l’epopea di una grande diaspora al pubblico che, in questo modo, non solo fruisce di uno show divertente con musiche molto commoventi che toccano l’animo, ma si avvicina ad una serie di vicende che hanno segnato la storia del mondo occidentale.

Moni Ovadia

Moni Ovadia

Come e quando ha deciso di dare il via ai reading degli Scritti Corsari di Pier Paolo Pasolini? Qual è il suo rapporto con lo scrittore e poeta e in che modo ne ha interpretato l’opera?

Anche se non ho mai avuto il privilegio di incontrare Pasolini, per me è stato maestro di pensiero, di sapere, di arte. Nessuno ha saputo capire il mondo popolare, le sue immense ricchezze come Pasolini. Oggi non abbiamo nessuno che sia in grado di essere altrettanto lucido; Pasolini non è stato profeta, ha semplicemente capito quello che vedeva e che noi non vedevamo ancora ed io, quando leggo questi gli scritti Corsari, ci trovo sempre un nutrimento e penso che essi vadano letti  nelle scuole per capire. Sono testi ricchi di coraggio, lucidità e pathos come difficilmente è stato riscontrato altrove nella nostra storia nazionale.

Il prossimo 18/10 sarà a Napoli con lo spettacolo intitolato “Senza Confini. Ebrei e Zingari”, un contributo alla battaglia contro ogni razzismo. Ci descriverebbe questo spettacolo e cosa intende trasmettere al pubblico?

Anche questo spettacolo avrà una formula semplice. Ad accompagnarmi ci saranno 4 musicisti rom e 3 italiani, ci sarà una parte ebraica molto breve mentre tuto il resto dello spazio sarà dedicato alla cultura musicale rom e alla tragica e continua discriminazione a cui questo popolo è soggetto. I rom che collaborano con me sono miei amici, fratelli e collaboratori, sono in gran parte rumeni ed incarnano il senso più profondo di questo spettacolo. Il repertorio è vasto quanto le terre che i rom hanno attraversato, non c’è terra d’Europa che non abbiano calcato e trovo giusto parlare di loro per spiegare e condannare le vessazioni di ogni sorta che essi abitualmente subiscono per dimostrare anche che la nostra società non è guarita dalla bestia del razzismo.

Cosa pensa di iniziative come quella del Forum Universale delle Culture?

Iniziative come questa sono di estrema importanza perché o noi riusciremo a costruire l’accoglienza delle alterità, o ci saranno sempre guerre e violenze. Le differenze possono convivere e scambiarsi reciprocamente le rispettive ricchezze. Nel mio paese natìo in Bulgaria tre religioni hanno convissuto ed in 400 anni di convivenza non si è registrata una sola violenza; non è un caso che gli ebrei di Bulgaria sono stati salvati dal popolo bulgaro. L’accoglienza dell’altro rappresenta, dunque, la benedizione per il futuro.

Secondo lei esiste una dimensione artistica in grado di coniugare web-musica-social network e poesia?

Certo, dipende dalle capacità dell’artista…Uno dei più grandi cantori della storia italiana era Enzo Del Re, ascoltare lui cantare era come entrare nel tempo, quasi come se avesse vissuto per 2000 anni. Enzo si accompagnava soltanto con una sedia e questo testimonia che, fin quando la tecnologia non sarà in grado di superare la mente umana, l’arta sarà sempre una prerogativa legata alle singole capacità dell’artista in questione.

Raffaella Sbrescia

Lezioni di Rock: Assante e Castaldo al Teatro Parenti per raccontare Bob Dylan

Bob Dylan

Bob Dylan

Tutti a #LezionidiRock! Il Teatro Parenti di Milano si è eccezionalmente trasformato in aula studio in occasione del nuovissimo ciclo incontri tenuti dai super prof di Repubblica, Ernesto Assante e Gino Castaldo, i critici musicali più famosi del web. Al centro del primo affollatissimo appuntamento, la controversa figura dell’eterno ed immortale Bob Dylan, geniale precursore di idee e correnti musicali ad ampio raggio.  A più di 50 anni dalla pubblicazione del suo primo disco, la lucidità con cui Dylan è stato in grado di raccontare il suo tempo non smette di rapire e conquistare un pubblico transgenerazionale. Nato per sorprendere, destabilizzare, sconvolgere se stesso e gli altri, Dylan diede letteralmente il via all’evoluzione della musica. Carismatici, attenti ed appassionati, oggi come allora, Ernesto e Gino hanno accompagnato il pubblico lungo il percorso umano ed artistico di Bob partendo dai suoi inizi di folksinger, passando per la fase beat, fino all’evoluzione rock.

Ernesto Assante e Gino Castaldo

Ernesto Assante e Gino Castaldo

Dalla banale e paradossale efficacia di “Blowing in the wind” al cambiamento epocale introdotto da “The Times They Are A Changin’” , il brano in cui Bob racconta le nuove esigenze del mondo. Particolarmente attento lo sguardo di Assante e Castaldo sulle costruzioni testuali inedite di Dylan, sul suo essere un punk ante-litteram, sulla sua capacità di sfuggire alle etichette per poter cambiare in qualsiasi momento le carte in tavola. Particolare l’enfasi posta sulla rilevanza del brano “Mr Tambourine Man” e sul ruolo della città di Newport all’interno dello scenario della musica folk negli anni ’60. Con la pazzesca ondata di successo dei Beatles, anche Dylan trova il modo per inserirsi in un contesto completamente assoggettato ai Fab4. Con il primo tour in Inghilterra, Bob trova il modo per dare un significato ad ogni minimo gesto. L’apice di questo complesso percorso evolutivo avviene nel 1965, l’anno in cui Dylan pubblica “Highway 61 Revisited”: l’album definitivo.

Bob Dylan

Bob Dylan

Ad introdurre questo masterpiece è il destabilizzante colpo di rullante di “Like a rolling stone”, il brano della discordia, il racconto del crollo sociale, della perdita delle certezze. La teatralizzazione della nascita del rock si compie con la prima esibizione, in formazione elettrica, di Bob Dylan a Newport. La “mecca” del folk viene violata proprio da uno dei suoi miti di riferimento: è l’apocalisse. Il pubblico fischia, Dylan piange: è nato il rock, “non un genere bensì un modo di fare le cose”, spiega Castaldo. La parte conclusiva dell’incontro è interamente concentrata su “Highway 61 Revisited”: un omaggio alla cultura americana, alla strada per eccellenza, al collegamento tra nord e sud, all’asfalto che trasuda blues da ogni centimetro, al simbolo che testimonia un preciso modo di essere, un album che fa da apripista ad un cambiamento che non ammetterà ripensamenti e che, ad oggi, rappresenta la pietra miliare di una svolta senza pari.

Raffaella Sbrescia

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