Damon Albarn, la recensione dell’album “Everyday Robots”

damon-albarn-everyday-robotsCome una falena attratta sia dalla bellezza che dalla tristezza, Damon Albarn, universalmente riconosciuto come icona della musica britannica, presenta “Everyday Robots”, il primo album da solista della sua carriera costellata di successi e importanti riconoscimenti, ottenuti in particolar modo coi Blur e con il progetto Gorillaz. Senza tergiversare troppo in preamboli e prolisse introduzioni, arriviamo subito al fulcro di questo disco che è indubbiamente il più intimo e personale dell’artista. Un viaggio a ritroso, compiuto in maniera elegante e sussurrata, attraverso una delicata texture sonora, studiata ad hoc dal produttore Richard Russell, capo della XL Recordings, che si abbina ad una linea melodica e vocale pacata, intensa, riflessiva, quasi controcorrente. Mentre il mondo impone, martella, corre e sfianca, Albarn raccoglie tempo ed energie per creare la giusta atmosfera, necessaria per parlare finalmente di sé e non degli altri. L’alienazione da tecnologia è il tema centrale della title track “Everyday Robots”: we are everyday robots on our phones in the processo f getting home. Looking like standing stones out there on our own. We’re everyday robots in control, in tre process of being sold. Parole forti che non fanno sconti, un testo consapevole che trova una strada perfetta in un minimalismo ricco e consapevole. La malinconica e ricercata “Hostiles” precede l’incerta e tormentata “Lonely Press play” mentre malinconici ricordi fanno capolino tra le calde percussioni africane di “Mr Tembo”. Damon Albarn lavora per sottrazione, seguendo la filosofia, spesso vincente, del “less is more”. Lo strumentalismo scarno di “Parakeel” si riveste di un’enigmatico ed immaginifico fascino mentre Natasha Khan dei Bat for Lashes compare nel ritornello di “The Selfish Giant”, inserendosi con impercettibile grazia e leggerezza tra le pieghe di una relazione di lungo corso. Parole che fluttuano tra passato, presente e futuro sono quelle cantate da Albarn che, in “You & Me” trova la forza di fare un cenno alla dipendenza dalle droghe. “Hollow Ponds” racconta, invece, l’elegante e luminosa Londra del 1976 mentre il sontuoso pianoforte di “Seven High” rientra tra i momenti più sofisticati del disco. Sentimenti e amore la fanno da padrone in “History of a cheating Heart” mentre l’album si avvia alla conclusione sulle note di “Heavy Seas Of Love”: Brian Eno, già collaboratore di Albarn in Africa Express, arricchisce, senza manie di protagonismo, il gradevolissimo carico emotivo trainato dal testo del brano: “When your soul isn’t right / And it’s raw to the night / It’s in your hands / When the traces of dark come to fade in the light / You’re in safe hands. Heavy seas of love/Radiance is in you/As above so below/On the heavy seas of love”: cantori del cuore si nasce e Damon Albarn lo nacque.

Raffaella Sbrescia

Video: Lonely Press Play